lunedì 20 ottobre 2014

Riflessione sullo stato della musica elettronica oggi, con carrellata all'indietro finale

Piccola premessa: proprio in questi giorni si svolge a Roma il XX CIM - Colloquio d'Informatica Musicale. Non c'è nessun legame ufficiale tra questo mio piccolo scritto e il Colloquio, ma la coincidenza mi piace.

Vorrei parlarvi di un intervento che ho sentito all’International Computer Music Conference di quest’anno. Il relatore era Cort Lippe, compositore, ricercatore e professore universitario americano; il titolo “Musings on the status of electronic music today” (“Riflessioni sullo stato della musica elettronica oggi”). Si tratta di un lavoro che tocca temi che mi interessano molto, benché in maniera che non condivido del tutto. Ma per cominciare, ecco il link all’articolo:


Mi concentrerò su un paio di punti che mi sembrano i più problematici e, forse, i più importanti.

Il primo è la divisione del mondo in quattro quadranti: musica acustica ed elettronica su un asse, musica “d’arte”, o “seria”, o “da concerto”, o “contemporanea”, in qualche modo separata dalla sociologia, dal mercato e dall’estetica della popular music sull’altro. È chiaro che qui abbiamo un nodo, e lo vede anche Lippe: che però lo ritiene essenzialmente un problema terminologico. Io no: tanto per cominciare, in questa ripartizione cartesiana non saprei chi mettere nel primo quadrante (“musica seria strumentale”): faccio veramente fatica a trovare, tra i compositori che amo come tra quelli che non amo, tra i grandi come tra i miei pari, qualcuno che non abbia mai impiegato il suono elettronico, in qualche sua forma - parlando naturalmente delle ultime generazioni: diciamo, grossolanamente, dei compositori oggi in attività. E c'è un altro problema: continua a sfuggirmi una definizione che non sia essenzialmente sociologica della distinzione tra musica “seria” e musica “popular”, ma di questo ho già parlato più e più volte e non mi ci addentrerò.

Sta di fatto che questa separazione tra “compositori di musica elettronica” e “compositori di musica strumentale” mi sembra oggi piuttosto capziosa. O, almeno, mi domando se non vada letta altrimenti, anche alla luce della mia esperienza di insegnante (di musica elettronica, guarda un po’): e cioè constatando che i compositori di musica strumentale, giovani e vecchi, salvo eccezioni sempre più rare oggi non esitano minimamente ad adottare il mezzo elettronico (anche se, come anche Lippe suggerisce, il paradigma tradizionale che vede affiancati e contrapposti un compositore che scrive le note e un assistente, o Computer Music Designer, o Réalisateur en Informatique Musicale che doma le macchine mostra sempre più il fianco), mentre continuano a esistere artisti forti di competenze tecnologiche avanzate ma sostanzialmente disinteressati alla scrittura strumentale, che si identificano come compositori puramente dediti alla musica elettroacustica e che tendono a essere rappresentati in istituzioni, concerti e festival specializzati. O forse - e questa potrebbe essere l’interpretazione più convincente - tra il compositore strumentale puro e il compositore elettroacustico puro esiste tutto un gradiente di personalità che comprende il “compositore che si considera tecnologicamente inesperto e impiega il suono elettronico solo se richiesto dal committente”; il “compositore che si considera tecnologicamente competente e che impiega il suono elettronico nelle sue produzioni più ambiziose”; il “compositore che si considera tecnologicamente esperto e impiega il suono elettronico più spesso che no”; il “compositore che si considera tecnologicamente esperto e impiega gli strumenti tradizionali solo in combinazione con il suono elettronico”: e come spesso accade, ho la sensazione che le posizioni centrali siano quelle più rappresentate - io stesso credo di potermi ascrivere alla penultima categoria. Ma voglio tornare per un attimo alle istituzioni, festival e concerti specializzati in musica elettroacustica pura: direi che, sebbene decisamente schierati rispetto a uno dei due assi tracciati da Lippe, molti di questi contesti sono invece estremamente aperti rispetto all’altro asse, e non sia raro ritrovarvi artisti di provenienza tradizionale affiancati senza tante storie ad altri di area popular - cito a caso nomi come Alva Noto, Christian Fennesz o Matmos; e non abbiamo parlato di tutto l’universo della musica cosiddetta sperimentale, quella citata da Fabio Selvafiorita nel suo intervento bellissimo che poi ha rimosso ma la cui sostanza potete ritrovare qui, quella che rifiuta di essere etichettata come pop, che cita Schaeffer e Cage come numi tutelari (magari insieme ai Velvet Underground e ai Pere Ubu, dimostrando ottimi gusti musicali) ma i cui creatori, per qualche motivo spesso legato più che altro ai rapporti di potere tra le istituzioni a cui si è legati o alla scelta di non studiare con qualche professore di grido, si scoprono outsider e se ne fanno un vanto. Insomma: il mondo è più complicato di così, e la musica elettronica è forse più copiosa di quanto Lippe non ci faccia intendere.

Alla luce di tutto questo trovo che il testo di Lippe abbia un grosso difetto, che non lo inficia interamente perché le sue argomentazioni sono argute, ben espresse e ben documentate ma che sicuramente lo fa vacillare a tratti: manca di una definizione convincente di musica elettronica. A un certo punto ne dà una, di sfuggita e tra parentesi (“(Per musica elettronica intendo musica con una componente elettronica)”), ma vaga, insoddisfacente (comprende anche la musica che viene composta con tecnologie elettroniche pur non impiegando dispositivi elettroacustici?) e per giunta incoerente con il resto dell’articolo, visto che non esiste festival di nuova musica che non programmi regolarmente opere per strumenti ed elettronica. Vorrei proporre un punto di vista diverso sulla questione (altro aspetto di cui, a onor del vero, Lippe si occupa, ma ancora una volta in misura marginale, laddove io trovo che si tratti del cuore del problema): sovente i direttori artistici, ma anche gli interpreti e gli editori, sono impreparati alle esigenze di una produzione con elettronica, e il risultato di ciò è scoraggiante: sale mal scelte e male equipaggiate, budget mal stimati e mal spesi, prove male organizzate e mal gestite, testi e media mal conservati e mal distribuiti. Il problema quindi forse non riguarda la volontà di eseguire musica elettronica, ma la capacità di affrontarne le problematiche: da cui la pletora di concerti in cui l’elettronica si pianta, fischia, gracchia, è troppo forte, è troppo piano, tutte cose che oggi si possono evitare con un po’ di perizia e di lavoro ben svolto e che però contribuiscono a mantenere un’aura di sospetto attorno allo strumento. Ma prova ad andare a un concerto pop e chiediti quanti microfoni e altoparlanti e cavi e mixer e prese di corrente e computer sono dispiegati: eppur funzionano…

L’altro punto del testo di Lippe a cui vorrei accennare è la presunta contrapposizione tra scientismo e umanesimo: La conoscenza scientifica e tecnologica necessaria a fare musica elettronica è forse considerata una forma inferiore di conoscenza, utile a scopi pratici, per sviluppare macchine e strumenti nelle scienze applicate, e di conseguenza meno profonda e significativa delle rarefatte argomentazioni artistiche, estetiche e filosofiche della conoscenza umanistica? Si tratta soltanto di un esempio di come la cultura umanistica si sente minacciata dalla tecnologia? È il riflesso di una posizione di potere vulnerabile, in cui sarebbe impensabile che una persona forte di nozioni tecniche abba anche nozioni e abilità umanistiche comparabili o, semplicemente, che una persona abile nelle scienze applicate possa anche essere abile artisticamente?

Queste domande, per lo più retoriche, mi sembrano utili al discorso ma parziali e riduzionistiche. È vero, è un meccanismo che conosco: la legittimità stessa di un artista si ritrova periodicamente messa in dubbio a causa del fatto che questi sa programmare un computer, o risolvere qualche equazione - e, colpa peggiore, che usa queste sue capacità a vantaggio della sua attività creativa. Ma la questione è immensamente più ampia, a cominciare dal fatto che questa contrapposizione semplicemente non dovrebbe esistere, che la scienza è umanesimo e l’umanesimo non può essere opposto alla conoscenza (e lo sapevano bene gli antichi, e lo sapevano bene gli umanisti - quelli veri -, e lo sapevano bene Galileo e Leibniz e Kant e Goethe, e solo in tempi recenti lo si è voluto dimenticare, forse perché così si fa meno fatica e le certezze acquisite devono sostenere meno sfide). È un tema al quale sono estremamente sensibile, una delle battaglie che combatto e voglio combattere in veste di insegnante e non solo, e uno dei grandi mali della nostra cultura, che possiamo puntualmente diagnosticare nelle parole e negli atti di sedicenti filosofi, intellettuali, opinionisti lasciati senza contraddittorio (mentre “lo scienziato” è sempre interrogato all’interno di un dibattito), e - più gravemente - nelle scelte di chi ci governa, indipendentemente dal partito o dall’antipartito: e il cui costo si misura, tra le altre cose, in disastri economici, sociali ed ecologici, in sofferenza e morte, unità di misura infinitamente più importanti del tema di questo post. 

5 commenti:

  1. Vorrei aggiungere due annotazioni sul post che ho scritto.

    La prima è una specie di dedica. È scomparso pochi giorni fa David Wessel, una delle persone che hanno definito la forma odierna dell'informatica musicale e del rapporto tra musica e tecnologia. Molto è stato scritto a proposito dell'importanza delle sue intuizioni e della sua figura. Io che non l'ho conosciuto non aggiungerò la mia voce a quelle di chi sa molto più di me, ma consiglio a tutti la lettura di quest'intervista, che tocca temi molto più ampi della mera storia del software: http://cycling74.com/2005/09/13/an-interview-with-david-wessel/
    Mi sento piuttosto stupido a non aver pensato di dedicare questo post alla memoria di Wessel: lo farò ora, colpevolmente a posteriori.

    La seconda è che ho avuto la fortuna di ascoltare Agostino Di Scipio presentare il suo libro "Pensare le tecnologie del suono e della musica". Non avendolo ancora letto non sono autorizzato a consigliarvelo: ma, a giudicare dalla presentazione a cui ho assistito, mi sembra che si tratti di un'indagine lucidissima sul rapporto tra umanesimo e tecnologia, osservato dal punto di vista di un musicista. Mi aspetto che possa diventare un testo di riferimento per chi è preoccupato dalle tematiche che, in maniera assolutamente superficiale, ho provato a sfiorare nel mio post.

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  2. Leggo questo Blog da poco tempo, ma con molto interesse. Ringrazio per la segnalazione di questo articolo di Lippe e (sopratutto) per i commenti e le osservazioni. (Sopratutto per il contributo sul rapporto tra umanesimo e tecnologia). Condivido interamente le critiche all'articolo, personalmente é stato molto interessante leggerlo perché a mio avviso rappresenta bene la visione -per me- miope del panorama della musica di oggi.

    1) Non vedo da tempo questa dualità acustico vs. elettronico. Già da tempo la nuova musicologia britannica (di L. Leigh, S. Emmerson...), parla più di musica elettroacustica, sottolineando che le composizioni puramente acustiche o elettroniche (in ambito accademico) sono sempre più rare.

    2) É paradossale, ma mi sembra -come anche tu dici- che i festival odierni puntino proprio sulla 'commistione' fra acustico e elettronico...cercando comunicazioni transdisciplinari e multimediali. Mentre Lippe sostiene il contrario.

    3) Lippe vorrebbe dare spunti 'innovativi', ma pone più domande che vere risposte. Parla della musica di oggi citando i pionieri giustamente di 50 anni fa ma tralasciando quello che é accaduto nel mezzo, penso a nomi come Harvey, Smalley, Bayle, Saariaho...

    4) Per ultimo, Lippe ha una visione parziale della "popular music" (citando affascinato un esempio limite del DJ che suona con una pen-drive) e ignora l'altra faccia dell'elettronica, penso a Lucier, Ashley, Radigue... (e ai nomi che hai già citato Carsten Nicolai in primis).

    Quello che trovo più interessante dell'articolo, é la questione sul rapporto fra conoscenza scientifica e umanistica. Li per lì, l'articolo poteva essere stato scritto negli anni '80...invece é proprio recentissimo. (La cosa in sè mi fa un pò rabbrividire! :-), ma questo é un mio problema!)

    Grazie per la segnalazione. E complimenti a tutti per il blog!

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  3. Caro Andrea, una nota off-topic a margine alle tue (giuste) considerazioni: mamma mia che basso livello! Com'è possibile che l'ICMC, un contesto scientifico internazionale considerato di alto livello, accetti un intervento con basi metodologiche e bibliografiche inesistenti, e legittimi un un'accozzaglia di opinioni basate su concetti decontestualizzati e deproblematizzati, mal o non definiti? È davvero imbarazzante: a partire dal risibile paragrafetto sul modernismo, per andare avanti con concetti che forse solo alunni del primo anno di musicologia in osteria potrebbero usare con tale disinvoltura. E a questo punto mi viene da chiedere: perché nell'ambito della musica elettronica-elettroacustica-elettrica-… e del suo studio ho spesso questa sensazione, di assoluto vuoto metodologico nell'elaborazione concettuale? Perdonami lo sfogo; ad ogni modo, ottimo post: concordo in pieno con le tue osservazioni.

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  4. Ciao Giacomo, rispondo parzialmente alle tue domande dicendo che Lippe è stato direttamente invitato dall'ICMC a scrivere quest'articolo e fare la sua presentazione. L'articolo non è quindi stato sottoposto ad alcuna revisione.

    E tuttavia, pur nella sua ingenuità (e hai ragione!), mi sento di spezzare una lancia per l'articolo: metodologicamente scorretto, sbagliato da molti punti di vista – ma almeno Lippe prova a dare una visione di insieme sui problemi e sulle prospettive! E lo dico perché molti dei keynote di quest'edizione ICMC (e penso a personaggi importanti: John Chowning, Curtis Roads...) non erano affatto dei keynote, ma semplicemente una carrellata di slide con ciò che costoro hanno fatto durante gli anni. Io ero imbarazzatissimo: da un keynote di Chowning francamente non mi aspetto che mi spieghi la modulazione di frequenza, mi aspetto che mi dica quali sono i problemi di questo millennio.

    Tutto qui: la cosa che mi ha lasciato senza parole è stata la generale mancanza di visione nei keynote cui ho assistito (non li ho seguiti tutti), come se l'ICMC fosse semplicemente un luogo in cui ciascuno racconta quello che ha fatto nel suo passato. Almeno Lippe prova a fare qualcosa di più...

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    1. Beh, certo: non deve essere piacevole andare fino ad Atene per "scoprire" l'FM!
      Organizzare le "Lectio magistralis" del convegno annuale dell'associazione internazionale di musica elettronica in questo modo in ogni caso mi sembra che ponga più di un'ombra sul convegno, e, di converso, sull'associazione stessa. Dovrebbero essere momenti cruciali di riflessione e stimolo.

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