domenica 2 novembre 2014

Parlar di musica


Non sono dotato di un primo ascolto analitico, ogni qual volta ho l'occasione di ascoltare Schubert o Beethoven (come Mahler o Stravinskij) l'interesse d’indagine strutturale o sul trattamento dei materiali svanisce. Ho la sensazione di essere risucchiato in una storia, la fine dell'esposizione diventa respiro, la ripresa, un ritorno, un accordo che esplode è una grande esplosione prima ancora di essere una lunga serie di terze sovrapposte.


Una storia dunque, in cui l'atipica modulazione inerisce al cesello di un movimento nel dramma piuttosto che al concetto derivante dalla sua atipicità. In realtà la coscienza dell'atipico e il suo portato concettuale non è necessariamente in antitesi con ciò che riguarda la retorica, faccio quindi mie le parole di Eric Maestri "sapere finalmente che ogni musica è concettuale". 

Quando penso ai contenuti mi riferisco anche a ciò che nei miei anni da studente era visto di cattivo occhio: il narrativo. Per quelli della mia generazione è stato una sorta di tabù. "Narrativo = troppo alto il rischio che diventi descrittivo"... la cosa mi ha sempre lasciato perplesso, di più... sacrificare il portato dello storytelling per il documentarismo fotografico (la famigerata "idea del pezzo") non mi ha mai convinto. 

Siamo testimoni di epoche in cui la bassa formalizzazione ha spesso portato alla produzione seriale (non è una critica negativa, piuttosto il riconoscimento di una scelta di campo precisa) e mi sto chiedendo da qualche tempo se il rifiuto del narrativo abbia in qualche modo influito sui contenuti e su come oggi gli stessi siano letti. Mi chiedo se qualcuno dei nervi oculari dei "lettori di contenuti" si siano atrofizzati a causa di contenuti che pretendono lo sforzo di altri muscoli di lettura. Lachenmann pare abbia detto "La mia musica è come scalare una montagna", questa frase mi piace perché è una metafora magnificamente non pretenziosa e perché è fondamentalmente vera. Nella musica di Lachenmann c'è un'azione di scoperta, un viaggio, il movimento ha una frizione, una resistenza all'attrito, c'è _a mio avviso_ dell’avventura e del narrativo. I concetti di Lachenmann sono anche nel come li mette in musica e se Lachenmann stesse zitto, la sua ricchezza passerebbe comunque.

Questo mio inizio terribilmente ingenuo non vuole suggerire alcun affetto per la vetusta teoria "Tintinno-Tuffo", in realtà in questo post non voglio in alcun modo schierarmi (ci sono altre carte e altri alfabeti per questo). Non voglio suggerire possibilità d’interpretazione della musica contemporanea o quant'altro e se inizio confessandovi il mio pessimo talento del primo ascolto è appunto perché spero (anzi ne sono convinto) che tra voi ci sia gente che sia capace di ascoltare musica in modo diverso dal mio. Potrei anzi continuare il gioco sostituendo alla parola "ascolto" il termine "scrittura" e allora forse arriviamo a un punto: vorrei rivendicare il diritto alla pluralità e alla mobilità, vorrei non essere "ridotto" a priori (in quanto autore, in quanto firma e in merito ai suoni che scrivo), sogno di poter stare sui contenuti come Lachenmann (temo sia un sogno largamente condiviso). Faccio mie le parole di Angela Vettese (il cui libro "Si fa con tutto" è in contrappunto al post): "La mancanza di opinioni precise o univoche da parte di antropologi, psicologi e altri studiosi del comportamento e della mente umana [...] ci consente di dire che l'arte pare non sopportare definizioni a priori; non si può dire "prima" cos'è l'arte e "poi" andarla a cercare nel mondo; l'arte è una categoria di oggetti, suoni, comportamenti, progetti e così via, che si definisce soltanto a posteriori".

Questo post è una sorta di risposta parziale allo scritto di Eric, non tanto sulla questione dei manifesti o del concettuale, quanto piuttosto sull'osmosi reciproca tra due aspetti del vivere d'arte: quello del contenuto e quello del parlare del contenuto. Al momento (come sempre) molte certezze cadono, Andrea Agostini ci ha parlato dello sfrangiamento di confini tra acustico e acusmatico, azione teatrale e installazione si parlano, toy instrument e classici violini sono da anni contemporaneamente presenti nei magazzini dei grandi ensemble, in certi festival è ormai difficile assistere a un concerto di nuova musica nel quale non spunti un video da qualche parte. Tutto questo è, a mio avviso, bellissimo. Se però è bello osservare l'erosione del bordo semantico, è talvolta triste provare timore per il fraintendimento latente di ciò che entro tali bordi è contenuto (non parlo della classica ridefinizione dell'oggetto artistico in base alla sua ricontestualizzazione, ma di puro e semplice fraintendimento).

Condivido dunque l'esortazione di Eric esposta nel titolo di un suo recente post “Valutatemi per quello che la musica dice”. Il mio ascolto è mutevole come ciò che scrivo, ma non voglio cedere all’equivoco (temo pericolosamente in atto) secondo cui ciò che muta non è efficace_ oppure_ ciò che è efficace è ciò che è presentato prima che il tempo della sua assimilazione si realizzi (la definizione a priori garantisce agli organizzatori una continuità di esposizione).

In realtà il legame tra come l'autore vive l'arte che fa (prodotta, o no, dallo stesso) e come questa sia vissuta e digerita dal mondo è molto profondo, questo era ovvio già per Nelson Goodman (anni Sessanta) quando scriveva che le proprietà estetiche di un quadro includono non solo quelle che percepiamo guardandolo, ma anche quelle che determinano come deve essere guardato. Si potrebbe dire che gli autori di oggi sono intenti a comporre almeno su entrambi i livelli: l'atto creativo intimo e personale (che aspira all'efficacia sociale attraverso il contenuto) e l'influenza dell'autore in uno o più "mondi dell'arte" (H. Becker) (sistemi di relazione tra persone che influenzano i centri di produzione i quali concorrono all'incoronazione dell'opera). Quest’ultimo è dunque forse un atto compositivo. Ho parlato di questo già in alcuni post sui concetti di visibilità e socialità e ho già ipotizzato che nel contatto tra le due dimensioni risiedano scelte non soltanto di tipo estetico ma anche etico. 

A carte scoperte vediamo ciò che è naturale: gli autori sono ansiosi. La Vettese (i cui collegamenti logici sono talmente forti da rendermi difficile l'uscirne) chiama questo stato "sensazione del precariato": tra globalità e diversità, s’insegue un punto di verità (presunta) in perenne movimento, ad alleggerire il carico c'è la coscienza che una lettura socialmente lucida di ciò che si fa (e che porta al riconoscimento) può arrivare solo a posteriori. C'è una qual certa solitudine nel movimento, nell'epoca del social c'è una forte attenzione verso ciò che si condivide: c'è dell'ovvio pudore nel parlare degli aspetti intimi dello scrivere e dell'animale istinto di conservazione nel gestire ciò che sarà la mia nuova terra e le relazioni che v’instaurerò. Il movimento è bene che sia solitario, la Vettese dice: "Non portiamo alcuna certezza nel nostro zaino e non abbiamo nulla da dichiarare". C'è della solitudine, c'è la ricerca di un terreno da conquistare e i proprietari di queste terre devono essere sicuri del futuro raccolto prima ancora che i nuovi contadini abbiano seminato. Alcuni di questi fattori scelgono il neo-x di turno, forse perché si assicurano maggiori margini di prevedibilità sul raccolto. Autori ansiosi e contesti ansiosi m’innervosiscono, perché proprio qui rischia di verificarsi il fraintendimento di cui sopra: l'efficacia dei contenuti misurata con quella del saperne parlare. "L'arte non è legata a un certo modo di parlare, ma al parlare in modo efficace" (Vettese). 

Personalmente sono sempre stato affascinato dall'arte ready-made, il fatto che però l'esportazione musicale di questo concetto – pratica - estetica (nato prima di me) sia uno degli elementi di novità più incentivati degl’ultimi quattro anni m’incuriosisce. M’incuriosisce anche l'enorme accento posto sui medium, come se McLuhan non fosse ancora nato. M’incuriosisce che istituzioni giganti come Darmstadt ospitino un dibattito dal titolo "New Conceptualism: a dead end or a way out?" senza porsi il problema se il titolo dell'iniziativa sia, forse, drammaticamente mal posto. 

Il movimento esige perdita di memoria e questo è naturale, accetto però l'incremento della velocità del dimenticare a patto che le cause siano riferite ai "contenuti" piuttosto che alla pratica della "parola sui contenuti". 

In questi anni ho assistito a diverse situazioni-limite: il saturazionismo esisteva già nel 114 d.C. (la colonna di Traiano a Roma) ma è anche visibile nella Cappella Sistina o in Leonardo da Vinci, in Pollock, nei testi di Rimbaud o in Kubrick. Tale overdose d’informazioni è contenuta in uno scritto di non più di 300 parole. L'adozione del concettualismo 2.0 in musica pare sia giustificata da una situazione politica... economica... ... ... di protesta ... ... ... insomma è una via d'uscita verso ... ... (c’ho capito poco… approfondirò). Mi ha colpito una recente intervista di un noto direttore artistico che lavora in Francia, il quale ha detto che da certe correnti musicali degli ultimi anni si sarebbe aspettato sviluppi differenti, si sarebbe immaginato uno spostamento d'azione conseguente ai presupposti estetici: Palais de Tokio piuttosto che Cité de la Musique. Perché ciò non accade? Forse (pura e semplice ipotesi) perché il portato concettuale che ha conquistato molti direttori artistici (d’istituzioni musicali) non è ritenuto rilevante dagli omologhi direttori che si occupano di arte contemporanea (non musicale), forse perché chi ha assunto certe posizioni non ha le spalle abbastanza solide da sostenerle, forse perché il "parlar di musica" è banalmente mal fatto se paragonato alla pratica del "parlar d'arte".

Forse l'arte contemporanea ci insegna che il "parlar d'arte" ha una finalità artistica, è un piano compositivo che è strettamente legato alla produzione intesa come superficie d’iscrizione, è Contenuto prima ancora di essere veicolo di contenuti. Ridefinire i meccanismi di produzione è Arte composta attraverso la parola, se è dunque composta deve essere ben fatta: come scrive la Vettese "l'idea non basta". 

Ho da qualche anno la sensazione strisciante che si cerchi l'allure dell'artista prima del contenuto dell'opera che ha da proporre, la rima prima del verso, l'alfabeto prima della parola, la sinossi prima del romanzo. Ricordo una conversazione in cui Lachenmann raccontò del primo difficile contatto con la musica di Sciarrino, all’epoca la riflessione sul materiale come veicolo estetico era forse più saliente rispetto ai giorni d’oggi. C’era della paura in merito al rischio di sconfinare sul cosmetico, a un certo punto Lachenmann disse “poi ci rendemmo conto che Sciarrino aveva ragione, anche con quel cosmetico si poteva fare musica”. Il mio parlare di rime o versi non sia letto come figlio di questa dinamica. Riflessioni di questo tipo sono tipicamente tra artisti e seppur in termini diversi accadono ancora oggi. Il mio riferirmi ai versi sta principalmente al peso specifico dei termini che i compositori usano quando sono chiamati a schierare la propria musica con le parole. Non si tratta delle note introduttive ai pezzi, ma degli spazi con i quali comunichiamo con i “mondi dell’arte”, sul come rapportarci con questi perché forse possiamo introdurre un elemento di controllo nella velocità del “tutto scorre”, magari approfittando dei contenuti richiamati dalle parole che usiamo. Con ogni probabilità sono in errore, ma qui mi chiedo se questo incremento dello stato ansiogeno rischi di bruciare l'amore per l'esattezza dei contenuti che tanti artisti hanno. Appunto perché non hanno fretta. 

In questo post ho più volte citato Angela Vettese e parti di un suo testo, vale la pena farlo meglio e riportare nuovamente il riferimento a un suo libro del 2010 che ho molto a cuore: “Si fa con tutto – il linguaggio dell’arte contemporanea”, edito da Editori Laterza.

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