lunedì 21 aprile 2014

Ondřej Adámek - Kameny

In questo lunedì post-pasquale vorrei parlarvi di Kameny, un lavoro molto particolare per coro di 24 voci e grande ensemble di Ondřej Adámek, interessante compositore ceco nato a Praga nel 1979, la cui estetica è principalmente basata sulla ricerca sonora e sull'uso di strumenti trattati in maniera anticonvenzionale o di propria invenzione.


Ci sono varie cose che mi hanno affascinato di questo brano, in primis il tessuto drammaturgico e l’intreccio narrativo attraverso il quale i coristi e gli strumentisti si trovano a interagire, il trattamento della parola, gestito a volte in maniera del tutto anticonvenzionale e corroborato da alcuni strumentini (pietre, tubi, tamburi etc.) con i quali vengono forniti gli interpreti, e infine la semplicità e la chiarezza, formale e gestuale, che in qualche modo traspare fin dall'inizio del lavoro col suo procedere netto e essenziale.
Gli interpreti di questa esecuzione sono musicisti di altissimo livello e fanno capo a una produzione internazionale, a iniziare da George Benjamin, qui in veste di direttore, che risulta solido e brillantemente coinvolto alla guida del parigino Ensemble Intercontemporain e al tedesco SWR Vokalensemble Stuttgart. La registrazione qui proposta è stata effettuata alla Cité de la musique il 29 gennaio 2013.
Composto su un testo dello scrittore e poeta islandese Sjòn (autore che ha collaborato tra l’altro con la cantante Björk e Lars von Trier), Kameny, il cui significato in ceco è "pietre", è diviso in una serie di sezioni chiaramente identificabili e racconta, intrecciandole e in maniera più o meno poetica ed evocativa attraverso un sottile “fil rouge” narrativo, le vicende autobiografiche del poeta riferite al suo irrefrenabile amore per le pietre durante l’infanzia tanto da riempirsene continuamente le tasche, quella del figlio di quest’ultimo che oggi subisce il fascino dello scivolare delle pietre sull'acqua quando lanciate e quella di Dua Khalil Aswad, la giovane donna curda irachena di religione yazida giustiziata tramite lapidazione nel 2007 per motivi di amore e religione.
Il lavoro sulla parola è molto interessante e mi ha particolarmente colpito, fin dall'inizio del brano, quando si apre con una serie di fonemi, quasi materici, come un richiamo… o un lamento.
Sorprendente e curioso come in seguito gli strumentisti sembrano volerli riprendere e imitare, pressappoco come in un gioco infantile, quasi un viatico naturale per trasportare il testo in una ambientazione drammaturgica seriosa, fino a farlo propriamente “parlare”. 
Vi sono alcuni elementi che ricorrono o che fanno da fulcro sul quale ruota un’intera sezione, ad esempio la parola “outstretched” rappresenta l’elemento cardine che consente ad alcune parole, inizialmente smembrate del loro significato semantico, di “emergere” e divenire sempre più comprensibili (da notare che il testo è tradotto dall'originale islandese all'inglese) fino ad essere sublimate da un gesto rappresentativo e al contempo minaccioso, quello del braccio, che proteso in aria accompagna il suono con degli imponenti glissati vocali fino a raggiungere momenti idilliaci dove si percepisce chiaramente la parola "water", e dove improvvisamente le pietre smettono il ruolo di minaccia e sembrano voler simbolicamente percorrere la superficie dell'acqua di un immaginario mare, prima di scomparire nel suo profondo.
Il testo a tratti presenta delle parole aggiunte in tedesco e in ceco, una di queste, riconoscibile, è "steinchen" (piccole pietre in tedesco), alla quale Adámek riserva una particolare cura, essa viene già presentata praticamente dall'inizio e decomposta in maniera tale che ogni fonema affiori come pura materia sonora, a tratti austera, a volte ludica.
Il trattamento vocale generale, seppur a volte fin troppo semplicistico come ad esempio l’estenuante reiterazione di alcuni fonemi, appare molto vario, passando da transizioni vocali a sonorità caustiche, vedi i glissati e clusters, per giungere a una scrittura quasi tradizionale con risvolti dai tratti jazzistici o dal sapore etnico, dove alcune parole creano un ritmo interno e indipendente all'interno della struttura, una sorta di groove che va progressivamente infrangendosi in un mega-cluster microtonale a 24 voci.
Il coinvolgimento scenico e teatrale dei musicisti, e in questo caso anche del direttore, è una situazione usuale in Adámek, cosa che aveva già fatto in Nôise (2010) e Karakuri-Poupée mécanique (2011). 
Sul coinvolgimento del direttore credo vi sia una precisa intenzione, Adámek sembra considerarlo come attore e musicista a tutti gli effetti trattando la sua gestualità come parte integrante dello spettacolo, finalità che cerca a volte di sottolineare e mettere in evidenza, altre volte invece pare voler cancellare completamente la sua funzione per così dire “autoritaria”, prendendo a modello l’esempio di alcuni ensemble tedeschi che per scelta decidono di suonare senza direttore.
L’uso dei vari strumentini, dei sassi, della chitarra appoggiata e suonata in orizzontale genera una drammaturgia del suono che coinvolge l’ascoltatore fin dall'inizio proiettandolo in una dimensione onirica e suggestiva, lasciando che il materiale si cristallizzi nei momenti di reflusso, nei silenzi frequenti, nei respiri.
Un altro aspetto che mi ha colpito è stato l’uso singolare della massa, mi verrebbe da dire quasi mahleriano, dove spesso dall'insieme generale vengono estrapolati elementi isolati trattati per sottogruppi strumentali o solistici.
Tralasciando alcuni momenti di esplosione sonora tellurica e “caos organizzato”, Kameny, risulta essere un lavoro intimistico, delicato e ben lontano dall'avere quel carattere mastodontico di Momente di Stockhausen o Coro di Berio (benché si richiamino più o meno nell'organico), e affascina per essere alla ricerca perenne di un teatro interno, pieno di echi arcaici, di memorie personali, di rimandi al mediorientale e dove parola e suono si intrecciano, si distaccano, si riuniscono.

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