lunedì 7 aprile 2014

Psicosintesi

di Stefano Bulfon

Ringrazio gli amici di /nu/thing per avermi sollecitato questo testo, che avevo dapprincipio pensato di intitolare “Ciò di cui non si può parlare”.
Spero che il suo principale difetto  – di non essere in effetti un post,  ma una verbalizzazione di riflessioni private e personalissime  – possa non impedirgli comunque di avere qualche spunto di interesse.


Partirei da qui: per allontanarmene subito, cercando per così dire di scambiare tra loro input ed output, sul filo del pensiero che la creazione artistica (e la composizione in particolare) possa essere un bell’esempio di una “psicosintesi” che non ha il suo pendant nella psicoanalisi, per fare il verso ad una bella pagina di Blumenberg.
Non si scrive senza conseguenze_ di questo, nessuno dubita.
Che cosa è comporre: non solo “fare anima”, ma  pensiero, creare mondi.
O piuttosto scoprirli, visto che vi è un luogo in cui ogni cosa in un certo senso già esiste.
Esiste, bisogna “soltanto” andare a prenderla, e portarla da questa parte.
Con questo non mi riferisco in nessun modo alle pratiche o alle disposizioni di appoggiarsi sul già fatto, ma all’apertura, che la mente creativa possiede, su ciò che è “a venire”.
Non direi che l’unica ragione dello scrivere, né la fondamentale, sia la necessità di trovare un senso (a ciò che non è detto che ne abbia alcuno); ma esiste anzi una scrittura che è creazione di apparenti non-sensi, di interstizi di ignoto (nei quali presto nuovi sensi verranno ad annidarsi), coagulazione di enigmi, movimento d’anima.

È alla luce di questo, e non del limite del feticismo o del meccanicismo della scrittura (limite visto a volte con benevolenza da concezioni estetiche di qualche decennio fa), che qui parlo di strutture.
Vediamo delle forme, vogliamo comunicarle, cerchiamo di esprimerle.
Che lo vogliamo o no, scrivendo, organizziamo strutture (numeri_ relazioni, frequenze, durate, proporzioni); quindi, anche: le fingiamo, le sprezziamo, le neghiamo.
Talvolta ci appare più o meno chiaro che sotto al nostro scrivere ci sia qualcosa.
La convinzione che ci sia “qualcosa”, può fare o no parte del lavoro creativo (fino a trasformarsi talvolta in qualcosa di prossimo ad una fede_ Stockhausen), ed in fondo non ha importanza.
Perché in ogni caso le strutture veicolano dei contenuti, di cui sono l’elemento visibile, “oggettivo”.
Qui si potrebbe dire due cose: che poiché quest’ultimo aggettivo applicato all’arte sfiora un poco il ridicolo (vedi infra),  dunque le strutture stesse hanno sempre qualcosa di ridicolo.
Meglio: di vagamente osceno.
Ciò che è inevitabile, perché non appena un nesso si crea tra due elementi, ha la tendenza a evolversi autonomamente: ed è attraverso questa tendenza che passa ciò che spesso chiamiamo “senso”.
(Per fare un esempio, ed allontanare l’ombra di un facile misticismo, mi richiamo alla mente che l’osservazione del legame tra lo strutturale e il collettivo è già in Propp, e veleggia poi per altri versi in Levi-Strauss, Calame, Vernant.)
Ed anche, che in certi casi (Mozart? ...Kurtag?) la sproporzione tra il contenitore e il contenuto è immensa.
È vero, ma siamo in un ambito in cui senza contenitore non vi è contenuto, e nel momento esatto dello scrivere abbiamo propriamente a che fare esclusivamente con i contenitori.
D’altra parte leggiamo in Freud: “ogni sogno ha perlomeno un punto per cui esso è insondabile, quasi un ombelico attraverso il quale esso è congiunto con l’ignoto”.
Nell’arte, al di là delle differenze di approccio, la relazione con questo punto è ciò che fa la differenza.

In realtà parlo di queste cose per due ragioni personali: la prima è che negli ultimi anni, nel mio lavoro, la formalizzazione strutturale – assistita oppure no dal computer – che nella mia percezione ha avuto un incremento, ha però mutato di segno: “tentare di dare ordine a ciò che in fondo non ha ordine è uno sforzo inutile_ i luoghi che si possono raggiungere sono illimitati.”
E tuttavia, chissà se a causa di questo mutamento di segno (o di una mia più generale presa di coscienza riguardo all’immagine della tecnica nel nostro tempo), la mia percezione ha paradossalmente registrato un incrementarsi non tanto o solo della complessità, ma di qualcosa di simile alla trasparenza.
L’altra è il sentimento che siamo gocce di un’onda: che al di là del talento individuale, dell’intelligenza, del grado di incisività del proprio operare, del fatto che si pensi piuttosto al presente che al futuro (che al passato), siamo inseriti in qualcosa di più vasto, come scriveva benissimo qualche settimana fa Daniele Ghisi in un suo bel testo su Machaut.
Nel migliore dei casi, qualcosa passa attraverso di noi (scil.: attraverso la nostra musica).
Rispetto a questo siamo transitori, così come i valori cui attribuiamo importanza, e che invece mutano con i tempi.
E mi capita talvolta il pensiero che, se anche corrisponda a qualche cosa, il nostro credere di essere qualcuno, è accessorio, funzionale, strumentale.
Il sospetto che quando pensa o dice “Io” ogni uomo diventa “Io”.
(Altrimenti detto: la funzione “Io” è probabilmente non eludibile (rimane credo comunque necessaria per pensare), ma forse non corrisponde alla parte migliore di ciascuno.)

Portarsi fin sul bordo estremo del Molo Audace, le punte dei piedi già sospese nel vuoto.
Levarsi verso l’infinito azzurro, finché non resti ai nostri occhi null’altro che il cielo e il sole.
Dimenticare il resto.
Poi, di colpo, affondare lo sguardo nella schiuma delle onde, giusto sotto di noi, rispetto alla quale nulla ci si frappone.
Resistere allo scossone, accenno di vertigine: l’universo sembra curvarsi tutto in una discesa velocissima – ma non è così, e dura un attimo.
Abbracciare il mare, nostro fratello, e l’abisso che gli risponde dal fondo del nostro cuore.

6 commenti:

  1. Grazie Stefano, per aver condiviso con noi questo tuo bellissimo articolo, che apre a tematiche molto interessanti e inusuali.
    Mi piace molto quanto dici a proposito della struttura, e sono d’accordo quando scrivi che esse hanno sempre qualcosa di ridicolo, al limite dell’osceno.
    In tutto questo le strutture le recepiamo anche, e trovo che in alcuni casi, per comprenderne il senso bisogna essere disposti a “oscillare” (come nell’analoga attenzione fluttuante di Freud) in una sorta di “luogo di mezzo” dove favorire la ricezione. Un po’ come percepire la propria forza di gravità.
    A tal proposito mi viene in mente una frase di Jung: “si diventa ciò che accade nel mezzo”.
    Il luogo recettivo per eccellenza è proprio il mezzo, l’occasione per generare la “trance”. Trance non è forse un oscillare?
    E qui forse potremmo toccare il delicatissimo tema del silenzio considerandolo come luogo, come spazio che consente la trascendenza consentendo alla struttura di divenire musica, e la musica materia che scava, ma è uno scavare verso l’alto, levitante, contemplativo, incantatorio, trasformativo.
    Mi piace dare una definizione forte: il compositore deve morire a sé stesso creando una volontaria sospensione del proprio Io, aprendosi così al “vuoto fertile”: il luogo dell’oscillare.
    E forse è lì che, come tu dici, il nostro credere di essere qualcuno, è accessorio, funzionale, strumentale.

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  2. Trovo bellissimo sentire una voce che porta con sé dei colori diversi da quelli in uso a nuthing. Grazie infinite Stefano per la profondità e lucidità del tuo pensiero che hai condiviso con i nostri lettori. Spesso si è parlato di temi da affrontare come, ad esempio, la formalizzazione: bene, credo che il tuo punto di vista sia un significativo e profondo "pre-" alla discussione. Si tratta solo di un esempio, perché ben più di valore è, per me almeno, il tuo toccare le radici di un'azione come quella della scrittura. Scrivere nei/tra i/a causa dei/in rapporto ai contesti (intimi e sociali).
    Con questo regalo di Stefano, /nu/thing apre nel migliore dei modi una serie di post di artisti ospiti da noi contattati e che gentilmente e con entusiasmo hanno deciso di dare il loro contributo. Grazie ancora SB, il tuo omaggio a /nu/thing è forse più prezioso della piattaforma che lo ospita e questo mi fa un enorme piacere!

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    1. Caro Raffaele, hai ragione: è il "luogo di mezzo" quello in cui si producono (o incontrano) le immagini_ Aby Warburg usava dire proprio a questo riguardo "das Problem liegt in der Mitte".

      Cari Marco e Raffaele, sono io a ringraziarvi dei vostri commenti troppo gentili e dell'ospitalità sulla vostra piattaforma, che è un luogo di scambio e di riflessione stimolante, e dalle importanti potenzialità per il futuro.
      Buon lavoro a tutti!

      Stefano

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  3. Caro Stefano. Ho lasciato un po' di tempo per riflettere sul tuo post. Mi sono soffermato molto sulla questione delle strutture: volenti o nolenti lo scrivere fa forma. Si tratta per me del primo problema, in ordine di importanza. Se lo scrivere genera forma come sottoprodotto, perché allora non pensarci più, alla forma, e pensare solo ai contenuti? Perché appunto non lasciarci vivere nello scrivere; la fissazione farà da sé. La scrittura è una forma prima, forma tra le forme; però anche la scrittura si appoggia sul funzionamento del vivente. A volte credo che tutto si tenga, dall'atomo alle sinfonie. Mi è capitato di leggere Marcel Jousse. Lo interpreto alla mia maniera. Scrive nella sua "Antropologia del gesto" che il fatto di essere costitutivamente e fisicamente simmetrici fonda le nostre matematiche e le rappresentazioni simmetriche del reale. Dal fatto di essere fatti così, rappresentiamo, per forme astratte del nostro essere-fatti-così, il mondo. La simmetria in particolare è un prodotto della maniera di muoversi del corpo che ci tocca di avere. Se così è, non dovremmo formalizzare per costruire, ma semplicemente costruire, la forma sarà il risultato finale. A volte invece ci sforziamo di fare il percorso inverso. Chissà.
    Il tuo testo mi ha fatto pensare a queste considerazioni che spesso mi porto dietro. Grazie per la tua riflessione che mi auguro continuerà.

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  4. Caro Eric, ti ringrazio della tua risposta.
    Anch'io credo che tutto si tenga (mi piace, la tua espressione) e non potrebbe essere che così: se pensiamo che non abbiamo un corpo, ma s i a m o un corpo, per dirla velocemente. Facevo implicitamente riferimento anche a questo, alludendo all'aspetto "osceno" delle strutture.
    (Questo "tenersi "non implica un determinismo dei risultati, ovviamente: è risibile ad esempio pensare che se Bach non avesse scritto l'Offerta Musicale allora tanto l'avrebbe fatto qualcun altro; e Bach stesso avrebbe potuto scriverla oppure non scriverla _ le probabilità di questo secondo caso (come sempre) erano più alte di quelle del primo. D'altra parte noi valutiamo il mondo e la storia sulla base del visibile e di ciò che è passato in atto, e questa è in un certo senso una forma di cecità di cui raramente possiamo renderci conto.)
    Certo, la fissazione della forma può credersi o farsi incosciente.
    Aggiungerei forse due pensierini: che "vi sono più cose in cielo e in terra", e non è detto che la rappresentazione sia necessariamente il fine dell'arte. A mio modo di vedere per esempio, ne è una conseguenza.
    Poi, che nella creazione artistica vi è sempre una pulsione che sembra andare nella direzione opposta alla costituzione organica, diciamo "contro-natura" (essa è all'origine stessa dell'evoluzione, e nel mito di Prometeo già si individua sia il distacco dal divino che la tecnica comporta, sia la sua natura ambivalente): rispetto a questo, la formalizzazione può esere uno strumento_ perché comunque, vi sono dei contenuti che non si possono visualizzare ed esprimere altrimenti che attraverso i giusti strumenti (e il fatto che gli strumenti siano legati a noi o fondati sul nostro esser-fatti-così non significa che siano lo stesso ciò che noi facciamo con gli strumenti e ciò che noi facciamo senza di essi_ ma questo è vero anche nella sua forma inversa, per la quale un cattivo strumento può uccidere l'idea).
    Ma come vedi dico "sembra", perché invece potremmo anche dire che l'elaborazione intellettuale/strumentale fornisca alla "natura" l'occasione di manifestarsi in alcune sue forme superiori (o più interiori) e allora perché non pensare che talvolta l'esplorazione di nuove dimensioni formali possa essere un modo di lasciarsi vivere nello scrivere?
    Io non vedo contraddizione tra questi due approcci: essi corrispondono alle sensibilità di compositori diversi o dello stesso compositore in fasi diverse del suo lavoro.
    Alla fine, ciò che conta, è la mente sopra lo strumento, e credo che sia questo che tu vuoi dire quando parli di pensare solo ai contenuti.
    Sta' bene caro Eric, a presto,

    Stefano

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  5. Ciao Stefano, grazie molte per la tua riflessione, che trovo profonda e ispirata. Dici bene tu, siamo un corpo. Il compositore è un corpo, e la mente vi appartiene. Ci sono molte cose che ci sfuggono, del nostro vedere, toccare, pensare… L'involontario, l'oscuro o il celato ci appartengono perché sono carne, e quando componiamo li teniamo sempre per mano, o sono una parte del nostro corpo. Come il gomito che per errore fa cadere il set di matite colorate sul bordo del tavolo, che la sparpaglia a terra, e che la nostra mano poi riordina _ forse _ diversamente… . A volte _ o più spesso di quanto non crediamo _ non sappiamo quel che facciamo, e lasciamo che le cose si facciano da sole. Questo mi sembra buono. Un caro saluto.

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