lunedì 3 marzo 2014

Andrew Hamilton - Music for people who lose people

Qualche giorno fa è apparso su questo blog un intervento nel quale un lettore - tra le altre cose - diceva più o meno che si sente la mancanza di personaggi che possano vantare un qualche appeal pop. Sono d'accordo: un po' di attitudine pop è qualcosa di cui c'è grande carenza, e che invece potrebbe costituire un segno importante di modernità.

È in questo contesto che mi è venuto in mente un compositore che ho incrociato alcune volte, l'irlandese Andrew Hamilton, e una sua opera che mi piace molto, "Music for people who lose people". 


È un pezzo che a volte mi serve da pietra di paragone. Mi spiego. Tutte le volte che ascolto musica variamente neo-tonale e questa musica non mi piace dubito di me stesso: non sarà che anch'io, come tanti miei insegnanti, come non pochi miei colleghi anche giovani, ho finito per considerare la parola "neo-tonale" una specie di insulto? Non sarà che, nell'anno del Signore 2014, in fondo al cuore e alla pancia credo ancora ciecamente a istanze espressive e dogmi tecnici vecchi ormai di un secolo, araldi di un tempo in cui non erano ancora stati inventati la fisica quantistica, Hitler e Super Mario Bros? Non sarà, insomma, che invece di valutare l'opera in sé valuto il genere musicale in cui essa si inscrive, e faccio come quelli che dicono "no, 2001 odissea nello spazio non l'ho visto, la fantascienza non mi piace"?
In questi casi penso a "Music for people who lose people", pezzo ostentatamente neo-tonale, ripetitivo e - tra l'altro - "non privo di un certo appeal pop". E questo pensare mi fa costruire una specie di prospettiva. Giusto per fare una mezza boutade, potremmo dire che ogni linguaggio, ogni stile, ogni scuola declinata al suo peggio porta con sé i suoi rischi. Del tipo: il classicismo rischia il lezioso, il romanticismo il tronfio, la new complexity l'astrusità, la new simplicity la banalità, il saturazionismo la stupidità, e chi più ne ha più ne metta. Le varie declinazioni del neo-tonale, dati alla mano, rischiano drammaticamente il salottiero (e per giunta di bassa lega) e la repertoriazione acritica degli stilemi di una qualche trita "piacevolezza", come nel reparto complementi d'arredo dell'ipercoop. "Music…" sfugge splendidamente a questi rischi. È disturbante, sardonico, i materiali tonali sono talmente primitivi da risultare più che altro archetipici, familiari ma distanti, e i luoghi comuni musicali vengono storti, smontati, rotti, soffocati nel fracasso (brillantemente orchestrato, però) di una specie di fanfara meccanica inceppata che cattura, appassiona e in qualche modo obliquo persino diverte. 
Allora ti chiedi che cosa vuol dire pop: un'acconciatura che piace ai giovani, il linguaggio dell'easy-listening radiofonico, Warhol esposto al MoMa, i graffiti nel metrò, l'autoreferenzialità della "tv di qualità" di chi ha studiato McLuhan, e molte altre cose: tutti punti di vista che si intersecano, tutti ingredienti che possono partecipare, isolati o mescolati, a una delle tante alchimie che possiamo chiamare pop, da Allevi a Romitelli che cita Roy Lichtenstein a Lady Gaga ai Simpson. Certo è che alcune di queste esperienze mi sembrano più interessanti di altre: per dire, il taglio di capelli e le melodiette da pubblicità del deodorante di Allevi mi toccano meno dell'immaginario fluorescente post-tutto di Lady Gaga; per quanto astuti, i Simpson con il loro buonismo di fondo mi attraggono meno delle ultime, nichiliste canzoni di Romitelli. E questo pezzo di Hamilton dove si situa? Non so dirlo con sicurezza: c'è il gioco dei linguaggi, c'è una stramba macchinalità, c'è un atteggiamento ludico ma non ironico (oddio, siamo su un filo sottile, ma vedo una follia distruttiva che non lascia spazio all'ironia) e questo mi piace. Altrove, troppo spesso, mi sembra che, al di là di un'immagine un po' rock'n'roll utile a vendere il prodotto, di pop in uno dei molti sensi belli non ci sia granché, ma piuttosto una musica in definitiva perbenista - un po' come il peggior Paul McCartney, un po', diciamocelo, come Allevi.
L'ultima considerazione che vorrei fare riguarda la riconoscibilità della "scuola" a cui Hamilton fa riferimento. Anche prima di leggere la sua biografia, ascoltando la sua musica non potevo non pensare a Louis Andriessen. Non mi ha quindi stupito scoprire che Hamilton ha studiato in Olanda ed è stato suo allievo. Lo trovo un peccato assolutamente veniale, che però mi pone almeno una domanda: quanto lontano dall'albero cade la mela? Per molti di noi, segnati da un contesto prevalentemente italo-francese, questa scuola di post-minimalismo europeo è piuttosto distante. Per questo i suoi dettagli ci sfuggono, per questo forse ci appaiono più evidenti le relazioni e le filiazioni. E noi, se potessimo guardarci da lontano, quanto assomigliamo ai nostri maestri? E quanto ciascuno di noi sarebbe disposto a perdonarlo, non agli altri - che è facile - ma a sé stesso?

5 commenti:

  1. Provo a fare una mia piccola riflessione.
    Ho provato ad ascoltare il pezzo, e non ho resistito alla tentazione di saltare e andare avanti. Non sarei riuscito ad ascoltare per molto tempo i primi 7 minuti, che praticamente sfruttano lo stesso materiale. Sinceramente, troppo per i miei gusti (trovo il pezzo troppo, ma davvero troppo ripetitivo... e dura 17 minuti).

    Se leggo "neo-tonale" questo termine fa riferimento a qualcosa, ad un linguaggio, ad uno stile, una tecnica (fate voi), che ha delle caratteristiche, ed una precisa coordinata storica e geografica.

    Come compositore, oggi, posso sicuramente interrogarmi sulla possibilità di utilizzare quel sistema. Ma non posso evitare di inserirmi in un filone storico che, in un certo senso, si è interrotto decenni (se non almeno 100 anni) fa (e non farmi almeno alcune domande)

    Davanti alla scelta di un materiale non mi chiederei se usare il linguaggio tonale, ma se posso utilizzare determinati oggetti che fanno parte di quel linguaggio e di estrarli, utilizzandoli in un altro contesto. (es... le triadi, ma non le uso secondo la sintassi di un linguaggio che non ha più senso attuale).

    Il linguaggio tonale ha trovato una dignitosa strada nella musica pop. (ma vi prego, basta con il citare Allevi che fa del linguaggio tonale l'uso più banale e sempliciotto).

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  2. Ciao Paride,

    grazie per il commento! Io la penso esattamente all'opposto. I primi 7 minuti secondo me sono la parte più bella del brano - per me potevano andare avanti per altri dieci. Trovo sempre dell'energia nuova negli sfasamenti del loop, e nelle microvariazioni che introduce. Senza contare lo steel-drum che rende il "balcanismo" degli ottoni incredibilmente surreale.
    Al limite, nella seconda parte del brano mi manca la nettezza dell'elemento iniziale, che secondo me è l'oggetto più bello...

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  3. Caro Paride,

    vorrei fare prima di tutto una precisazione: non mi sognerei mai di citare Allevi come esempio di compositore neo-tonale - hai assolutamente ragione tu: la sua musica è completamente priva di qualsiasi interesse! Può però interessarmi portare Allevi a esempio di certi fenomeni sociologici, o culturali nel senso più ampio del termine - perché guarda che ci sono anche persone non ignoranti, non stupide e non digiune d'arte che non disdegnano la sua musica, e ci sono giornalisti di testate che altrimenti apprezzo che lo elogiano (e ancora clamo in eremo: dov'è la critica musicale in Italia??), e questi sono segni pericolosi: per cui voglio interrogarmici. Nel mio post ho cercato di sfiorare questo punto (qual è il lato oscuro della parola "pop"?), e solo in questo contesto ho citato Allevi.

    Riguardo poi al punto se l'utilizzo della tonalità sia necessariamente adesione a una Weltanschauung morta e sepolta, ovviamente i pareri possono essere i più discordanti. A me pare che il sistema tonale sia diventato un po' il capro espiatorio di un'intera civiltà musicale che tuttavia continua a essere per tutti noi (esagero?) l'unica "vera" Musica con la M maiuscola. A quasi un secolo dalla formulazione della tecnica dodecafonica mi sembra che si possa scrivere musica in do maggiore che suoni assolutamente nuova (ma lo diceva anche Schönberg a suo tempo, no?), e musica senza triadi che suoni assolutamente bigotta. Quante volte mi ritrovo a un concerto di nuova musica e sento pezzi in cui il decorso formale, la dialettica, la gestione del tempo musicale, l'orchestrazione, quello che vuoi, sono completamente tradizionali, tardoromanticheggianti se non addirittura classicheggianti, e il compositore considera la scelta degli incontri verticali di note sufficiente a garantire modernità musicale, culturale e intellettuale all'opera? A me, invece, sono tipicamente proprio queste le opere che suonano più vecchie…

    Certo, come dici giustamente tu c'è modo e modo di usare un accordo di do maggiore. E c'è modo e modo di usare una rete di relazioni sintattiche all'interno delle quali un accordo di do maggiore possa situarsi. Sicuramente ci sono maniere di giocare questo gioco che suonano vetuste. Altre, almeno alle mie orecchie, no: "Music for people who lose people" appartiene, per quanto mi riguarda, alla queste ultime.

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  4. Incredibile che un commento pieno di ignoranza e grettezza come il mio abbia smosso così tante parole!

    Ti ringrazio Andrea per l'articolatissima risposta, che è ben al di là della mia capacità di comprensione. Prima di adesso non sapevo nemmeno esistesse una musica neo-tonale, né la "new complexity" o la "new simplicity", né il saturazionismo e gli altri generi elencati nell'articolo.

    Ho iniziato da pochissimo ad ascoltare musica contemporanea, e lo faccio con una web radio, Q2.

    Nel post ci sono due cose che trovo - a mio avviso - interessanti. Un esame di coscienza, "Tutte le volte che ascolto musica variamente neo-tonale e questa musica non mi piace dubito di me stesso", e un esercizio di estraniamento: "E noi, se potessimo guardarci da lontano...".

    Un approccio per affrontare questo percorso sarebbe quello di mettersi nei panni di un antropologo in una tribù di cui ignora il linguaggio, gli usi e costumi. Da perfetto ignorante, a questo giro credo di aver capito che la musica neotonale non gode di grande stima tra italiani e francesi, ma piace di più ai nordici. Ripercorrere a ritroso il corso del nostro senso estetico e capirne dove sia la sua fonte è quello che Andrea cerca di fare. O quasi.

    Dice, a proposito di Allevi: "...guarda che ci sono anche persone non ignoranti, non stupide e non digiune d'arte che non disdegnano la sua musica, e ci sono giornalisti di testate che altrimenti apprezzo che lo elogiano (e ancora clamo in eremo: dov'è la critica musicale in Italia??), e questi sono segni pericolosi: per cui voglio interrogarmici."

    Prima di finire sulle liste di proscrizione vi voglio rassicurare: Allevi mi è capitato di ascoltarlo e quello che ho ascoltato non mi è piaciuto. Ma tecnicamente, qual è il problema se alla gente - anche colta - piace? Perché Allevi sarebbe pericoloso? Per chi? Perché è da considerare il lato oscuro della pop?

    Temo che il problema sia che la tribù dei compositori/raccoglitori voglia definire con criteri normativi quale sia il bene e il male; principi imparati per lunghi anni sui banchi di conservatorio e reiterati tra i discorsi tra amici. Ma a chi di stabilire questi criteri?

    Rilassatevi, ragazzi. Per la fruizione di un film, una poesia, un quadro, della musica, NON SERVONO ipse dixit o principi d'autorità. Se Allevi/Hamilton/Wathever vi fa cagare, ok, amici come prima, ma qual è il problema?

    E' interessante che Andrea si domandi: "quanto lontano dall'albero cade la mela?". In effetti qui parla di come il potere e/o il caso disegna il tuo gusto, le tue convinzioni e i tuoi valori. E fa in modo che "cadi" qui piuttosto che là. Ma il fatto che ciò che in Italia è disprezzato è apprezzato in Olanda fa capire quanto siano deboli e contestuali questi giudizi che si vorrebbero assoluti, o perlomeno, razionalmente motivati da "istanze espressive e dogmi tecnici".

    Quando parlavo di appeal pop, parlavo di questo. Fregarsene dei principi di autorità e fare cose che piacciano, a te e a chi ti ascolta.

    Il post che ho commentato parlava di socialità e circoletti della simpatia. Ed sta tutto qui il problema: non è un problema musicale, è un problema sociale. L'autore, Marco Momi, lamentava la mancanza di spazio e interesse per la musica contemporanea.

    Ma forse il fatto che molta musica contemporanea *vuole* essere radicalmente asociale. E questa è una feature, non un bug. E musica per chi sa leggere la musica e apprezzare cose che agli altri sfuggono. Nessun problema, ma anche nessuna pretesa: se nessuno vi segue NON si può urlare "pubblico di merda, non capite un cazzo". Ma la tendenza rilevata da Marco è quella di fare trincia all'interno di un circoletto, da cui sputare sentenze sul mondo di fuori. Ripeto: nulla di sbagliato, ma è un comportamento asociale.

    Occhei, ho blaterato abbastanza.

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    1. Caro Oljtn, ti ringrazio sentitamente per la tua risposta e ringrazio Andrea per aver risposto ad alcune delle tue perplessità. Non mi dilungo perché non voglio uscire dal tema del bellissimo post di Andrea ma mi preme puntualizzare alcune miei intendimenti espressi in un vecchio post. In pratica caro Oljtn...hai ragione!il mio parlare di circoletti non voleva esprimere la solita lamentela sui pochi spazi dedicati alla musica contemporanea ma piuttosto fotografare alcune dinamiche di gestione culturale che dal "bug" (isolazionismo protettivo) hanno purtroppo portato alla "feature" (musica asociale, per pochi, di élite...). In pratica si trattava di una critica ai compositori stessi (soprattutto a come hanno gestito in termini di potere la loro autorevolezza artistica), i quali_talvolta_ per dare diffusione e appeal al loro prodotto l'hanno insistentemente e ipocritamente definito "non commerciale" salvo poi adoperarsi per la creazione di un "genere musicale" che li contenesse tutelandoli dal confronto. Il sapere che dalle parole di Andrea hai scoperto qualcosa mi entusiasma, perché proprio in questo vogliamo adoperarci: dare un poco di luce ad un mondo che per molto tempo ha cercato la penombra e la lontananza (non dal pubblico) dalla socialità. Direi poi che il nodo non è "fare cose che piacciono" (l'autonomia artistica del pop in questo senso non mi sembra esemplare... prova ad andare da un discografico con una canzone che contiene la parola "morte" e poi vediamo cosa succede...) ma semplicemente fare le cose in cui credi; in termini di "autorità giudicante" il pop ha poi una dinamica più lineare (al netto della più complessa struttura commerciale) in cui alla fine c'è gente che ascolta e gente che invece non lo fa... ma al netto è facile ragionare... bisognerebbe forse cominciare a parlare della "tara - struttura" per dare almeno la possibilità di una qualche consapevolezza sociale di esistenza... per rendere la casa più accogliente c'è forse bisogno di qualcuno che da dentro abbia la voglia di creare delle porte... prima ancora di porsi il problema se sistemare le postazioni per le cubiste...

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