lunedì 17 febbraio 2014

Monumenti

Oggi voglio parlarvi di Guillaume de Machaut e di monumenti. Ve ne parlo per una ragione semplicissima: mi tocca da molto vicino nel mio percorso compositivo di questi mesi. Allora tanto vale condividere qualche riflessione sparsa, per quello che vale. (Alcune di queste riflessioni diventeranno probabilmente un articolo per la rivista francofona Mouvement.)

La mia personale scoperta di Machaut risale al periodo degli studi in conservatorio, a Bergamo, quando il mio professore di storia della Musica propose di ascoltare il famoso Ma fin est mon commencement, senza svelarci in anticipo la simmetria sottostante. 

Ma fin est mon commencement è un rondò che nasconde la struttura di un canone retrogrado, in cui le due voci superiori si scambiano a metà le linee melodiche, e le ripercorrono all’indietro del tempo, mentre il tenor a sua volta, a partire da metà brano, rilegge al retrogrado tutto ciò che aveva appena cantato (il testo ne è emblema: “ma fin est mon commencement, et mon commencement ma fin”).
La scoperta a posteriori delle simmetrie o delle regolarità ha per me un gusto tutto particolare. È l’energia di una scarica di adrenalina che mi percorre quando ho la sensazione che qualcosa mi sovrasta, che qualcosa è infinitamente più grande di me. Ho la stessa sensazione quando penso al mio posto dell’universo, o al perché percepisco il fluire del tempo. La costruzione del rondò di Machaut è talmente semplice rispetto a queste domande universali, che l’adrenalina a posteriori può sembrare esagerata. Ma dopotutto, tra le righe di quel Machaut c’è esattamente il mistero del fluire del tempo, e il gusto agrodolce della finitudine. Forse per questo i processi formali così pieni di significato danno quella scarica di adrenalina: perché sono archetipi che rimandano a domande ben più grandi.

La musica, arte astratta per eccellenza, è arrivata ben prima delle altre arti a queste conclusioni, è vero. Eppure molte di queste strutture sono ben più riconoscibili, ad esempio, nel dominio del visuale: basti pensare ai Canoni di Norman McLaren. L’esempio di McLaren è calzante per vedere che c’è un grande aspetto ludico dietro la disposizione degli elementi astratti tramite simmetrie e regolarità. Ogni specchio nasconde un gioco (come insegna Lewis Carroll), magari un gioco terribile, ma pur sempre un gioco; ogni simmetria porta dietro di sé il gusto insieme ludico e diabolico di assistere al moltiplicarsi spontaneo di un qualche elemento. Talvolta questo gioco si esaurisce presto, e nel retrogusto non rimane nulla. Altre volte questo gioco è un vertiginoso meccanismo che allude marcatamente a temi altissimi, e nel retrogusto rimane la traccia indelebile del suo passaggio. È sicuramente il caso di Machaut, di Bach, o anche, per tornare al parallelo con la video arte del Novecento, di lavori sublimi come Tango di Zbigniew Rybczyński. 

Una parte di questo gioco diventa anche pop, o confluisce in quel calderone ambiguo che alcuni chiamano “postmoderno”. E non è solo il Machaut musicista a giocare con forme e livelli, ma anche il Machault poeta: pensate alla meta-narrazione in Le voir dit, o ai giochi di livelli tra poeta e racconto nel Jugement du roy de Navarre. È dunque Machaut uno dei padri del pop e del postmoderno? Da una buona parte di questi divertimenti discendono anche tanti prelibati giochi di livelli che hanno fatto la fortuna tanto di compositori come Berio, quanto delle serie TV odierne. In questo senso, dal mio personale punto di vista, c’è persino un filo che collega Machaut (direttamente o indirettamente) a registi come Michel Gondry (un lavoro su tutti: il video per la canzone Sugar Water) o a gruppi musicali come Elio e le Storie Tese (pensate alla retrogradazione dell’Elvis di Suspicious Mind che ha letteralmente generato Ignudi fra i nudisti). Forse sto forzando un po’ la mano con queste associazioni, forse invece no.

Il Novecento sarà erede naturale di una buona parte dei formalismi di Machaut e dei fiamminghi. A partire dalla seconda scuola di Vienna, si ha un grande fiorire di scuole, posture, tecniche. La messa a fuoco si sposta anche gradualmente sugli aspetti matematici (in particolare algebrici e combinatori) della formalizzazione. Per la verità, non di rado questo fiorire avviene nell’“iperuranio” del mondo in cui le forme, in qualche senso, possono prescindere dal contenuto. Forse è anche per questo che molti oggi imputano alla formalizzazione il distacco creatosi nel secolo scorso tra compositori e pubblico (si prenda, a titolo di esempio, la recente trasmissione radiofonica “Who Killed Classical Music”, BBC Radio 4, 21/01/2014, in cui il critico Ivan Hewitt dichiara che “the era of intense formal exploration, when composers sit at their desk, or more likely at their laptops, and explore ever more arcane forms of self-creating grammars for music are coming to an end”). Tale argomento – cruciale per la musica di oggi – meriterebbe certo un post a sé stante. Le esplorazioni di Machaut, dell’Ars Nova, o dei fiamminghi non erano forse intense esplorazioni formali, che presupponevano un intenso approccio speculativo? Queste forse si differenziano da “arcane forme di grammatiche auto-generative” nel loro essere elementari, quasi archetipali, dipendenti da minimi procedimenti algebrici. È allora un problema di “complessità” della formalizzazione? Il formalismo della sovrapposizione di cicli in Tango non è forse una forma di “self-creating grammar”? E il formalismo di un capolavoro come l’O King di Berio? E il Grisey di capolavori come Partiels o Vortex Temporum non ha alla base un lavoro spiccatamente formale? O ancora: si può forse vedere di cattivo occhio la figura del compositore novecentesco, chino su un tavolo pieno di fogli o schemi. Nel qual caso, bisogna però avere il coraggio di non opporgli la figura del compositore romantico, ma quella del compositore che, “seduto al proprio tavolo, o più probabilmente al proprio computer”, svolge un tipo di esplorazione perfettamente performativa: semplicemente abbiamo sostituito gli strumenti tradizionali con una macchina. Non posso credere che siano le esplorazioni formali ad aver alienato il pubblico della musica contemporanea: semmai sono le sterili esplorazioni formali ad averlo fatto: quelle che presuppongono che di fronte al formalismo ci sia a sua volta un automa formale, e non un compositore, con la capacità di prendere decisioni estetiche. Personalmente, come essere umano e come compositore, mi sento estremamente limitato; la mia visuale ha un angolo minimo, infinitesimale, rispetto all’enormità delle cose possibili. Dialogare con macchine è una maniera interessante di percorrere altre vie, cercare sorprese, raggiungere territori di bellezza cui non sarei mai arrivato riflettendo né a tavolino, né al pianoforte. Il problema non è nel formalismo: il problema, semmai, è nel riempire il formalismo di senso.

Tra le formalizzazioni piene di senso c’è sicuramente quella che fa ispessire la filigrana, e allora l’architettura diventa monumentale. La Messe de Nostre Dame ne è forse l’esempio più alto.

A ogni ascolto del Kyrie mi rendo conto che la costruzione formale mi ha sovrastato, è diventata monumento. Se dovessi sintetizzare quello che oggi leggo in Machaut, e quello che parzialmente mi manca altrove (prima di tutto in me stesso), è questa monumentalità. Intendiamoci: io non vedo alcun platonismo, non esiste mimesi né distanza tra mondo dei suoni e mondo delle forme. Macchina e contenuto si confondono. Forma e suono sono inscindibili: la forma plasma il suono, il suono ha senso nella forma. Lo stesso parlare di forma è riduttivo: la parola “architettura” rende, appunto, meglio l’idea. Questo stesso approccio ha influenzato fortemente molti capolavori degli ultimi decenni: la monumentalità viene assunta, ritracciata, eventualmente sublimata. Sarebbe molto facile citare Stockhausen. Ma sto pensando innanzitutto al magnifico Scardanelli Zyklus di Heinz Holliger, e non si tratta di un caso come tanti: nello Scardanelli i mattoni sono elementari, l’ingranaggio è semplice, il risultato è monumentale. Non indulge, non si piega, rimane radicale. E non è forse questa la cifra principale che possiamo rintracciare prima di tutto in Machaut? Se dovessi cercare altri esempi di questa monumentalità, attingerei ai capolavori della musica elettroacustica. Penso, per citarne uno, al Parmegiani di De natura sonorum, benché in tutta onestà molte altre opere acusmatiche abbiano questo stesso tratto, il che mi sembra di estremo interesse. Per quanto mi riguarda l’associazione tra Machaut e musica elettronica non è in alcun modo una boutade: al contrario, ho l’impressione di vedere un filo diretto, che taglia la cronologia in modo più interessante del semplice susseguirsi di datazioni. Ma può anche essere un'allucinazione, o un desiderio. (La monumentalità sta anche nella fruizione: ascoltare lo Scardanelli o il De natura sonorum da Youtube non ha nulla a che vedere con l'esperienza che se ne può fare dal vivo. Esattamente come guardare una fotografia di una cattedrale.)

Forse invidio la monumentalità dei lavori che citavo precedentemente perché si tratta di qualcosa che, con sguardo introspettivo, mi è sicuramente mancata e probabilmente mi manca ancora. Forse la invidio perché è una chiave per uscire dal formato comune socio-musicale del “brano di musica contemporanea”, che si riflette nell’esperienza socio-musicale del “concerto di musica contemporanea”, in cui una lettura in sequenza di un certo numero di brani, che, indipendentemente dal loro valore individuale, hanno rapporto reciproco non di rado pretestuoso, o assente (e non solo per noncuranza: talvolta per scelta consapevole, talvolta per necessità). Può un concerto essere monumentale? Eccome: le risposte arrivano chiarissime da mondi musicali diversi dal mio (penso a quello del rock, o del pop); ma arrivano chiarissime ultimamente anche da esperienze nel nostro dominio. Fortunatamente negli ultimi anni programmazioni di questo tipo si vedono sempre più spesso. In questi casi, il concerto è vera architettura.

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