lunedì 25 maggio 2015

Is composition not research?

Il post di oggi prende spunto da un articolo che John Croft ha pubblicato su Tempo, una rivista dedicata alla musica d’oggi. Si tratta di un provocante articolo intitolato Composition is not research. Da dove viene questa asserzione così marcata? 

Per coloro che conoscono poco il contesto anglosassone -  e via via sempre più continentale -  lo studio della composizione è fatto principalmente in Università. Ci sono dipartimenti di musica che non solo formano musicologi ma anche compositori e interpreti. Il quadro è allora diverso da quello dei Conservatori, in cui si formano musicisti secondo schemi che derivano dalla divisione delle belle arti fatta nel diciottesimo secolo. Nei Conservatori l’arte si insegna tramite le tecniche e la storia; quello che si dice con quelle tecniche antiche e tutte quelle nuove è affare dell’artista, del pubblico e del gusto. Per dirla in maniera schematica, "nel migliore dei mondi possibili", il successo artistico dipende da quanto i pezzi sono apprezzati, dalla forza, inventività e solidità tecnica dell’artista. Nelle Università è invece richiesto all’artista di definire, a parole, la sua poetica e la sua posizione estetica, contestualizzando il suo pensiero nella migliore maniera possibile. 

Nel mondo accademico e nell’inflazione attuale di corsi universitari dedicati alle “creative arts”, i compositori, ma anche gli interpreti, si confrontano con un sistema che pretende di valutare gli “output” di un lavoro, il suo “impatto” sulla comunità scientifica e i metodi di lavoro. Così, i compositori che lavorano in università devono adeguarsi per entrare in questo sistema. Quello che una volta un compositore avrebbe lasciato nascosto tra le sue carte, files e pensieri intimi, oggi deve essere esposto, pubblicato e messo al centro di un progetto di ricerca. 

Per John Croft questo progetto è spesso un pretesto, uno strumento che permette di accedere a finanziamenti utilizzati poi per scrivere un pezzo che si sarebbe scritto comunque. 

La domanda viene, allora. Si tratta di un’impostura o di un’evoluzione possibile, di cui non tutto è da buttare? Pretesto, vera ricerca, mistificazione? In effetti, coloro che hanno un po’ frequentato l’ambito accademico anglosassone, capiscono che, a volte, ci si trova a disagio nel definire, inquadrare e schematizzare un contenuto che, di solito, siamo abituati a metter in musica, qualsiasi forma abbia. Allora la provocazione di Croft sembra toccare nel segno e sarei tentato di condividerla appieno. 

Riassumo le sue posizioni. 
Ci sono due tipi di compositori nelle accademie di oggi: quelli che investono, illusi, sulla “ricerca” e quelli che riconosco l’assurdità di questa idea, ma continuano a dirigere dottorati, cercare fondi e documentare le loro attività come se fossero vere, dice Croft. Nulla di profondamente sbagliato, ma probabilmente, incoerente: comporre dipende dalla ricerca (notazione, tecniche strumentali, elettronica, teoria ecc.), ma nessuna ricerca è direttamente fare musica. Rameau scrive il Traité de l’harmonie, la sua ricerca ha influenzato le sue composizioni, ma il suo trattato non è un’opera musicale. 
Qualcuno potrebbe opporre l’idea che costruire un sistema compositivo sia fare ricerca; ma, nella pratica, tutti sappiamo che una “buona” o una “cattiva” composizione non dipende da alcun sistema. Se l’obiettivo è allora “comporre bene” che utilità avrebbe il sistema? Di converso, però, se l’obiettivo non è comporre bene, ma comporre coerentemente, secondo una prospettiva e una visione che eccede la riuscita e l’efficacia del pezzo, allora mostrare un sistema e un problematica può arricchire la percezione di un brano musicale. Croft ha ragione nel dividere i piani della pura composizione e della pura ricerca. Ma qui esce forse il primo dubbio sullo scritto: possiamo parlare di piani divisi, di pura musica e pura ricerca? Possiamo per esempio parlare di Schumann senza conoscere un poco il contesto culturale in cui la sua musica, bellissima, si inserisce?

Torniamo al testo di Croft. Ogni domanda compositiva ha una risposta affermativa: ogni “ricerca” in composizione ha già una risposta. Se la domanda di Schoenberg fosse stata: “è possibile creare un sistema in cui ogni altezza abbia la stessa importanza relativa?”, la risposta sarebbe stata sì. Se Grisey si fosse posto la domanda “è possibile fare musica con degli spettri, senza linee e armonia ma fondendo entrambi i piani?”, la risposta sarebbe ancora sì, dice Croft. Un’altra ancora potrebbe essere: “posso creare un brano che sonifica il genoma umano?”, la risposta sarebbe ancora: sì! Ma allora la domanda sembra non avere un gran senso: è sempre positiva. 
Senso può averlo, suggerisce Croft, se la correggiamo e la smussiamo : possiamo creare un sistema compositivo che, coerentemente, dia un certo risultato? Il problema sarebbe allora nella coerenza e nella prospettiva; nella maniera in cui il lavoro compositivo entra nel contesto scientifico e ne integra i dibattiti. 

La coerenza del discorso, e della narrazione, sembra essere il criterio di valutazione principale: ogni domanda nell’ambito di un'ipotetica “composition-as-research” non può essere estesa ad altri se non alla persona che la pone. Il criterio della coerenza sembra essere quello dello sforzo e della costruzione retorica: posizionarsi in un contesto, mostrare la complessità delle scelte artistiche e indicare un dibattito nel quale inserirsi. La richiesta è di portare l’arte nell’accademia. La musica può essere l’oggetto di una ricerca psicologica, neuropsicologica o il piano di appoggio di una teoria musicale generale. Ma tutto ciò non è musica. Musica potrebbe essere formulare domande e coerentemente comporre per investigare le possibilità di risposta a tali domande. Chiedere a un compositore o a un interprete di raccontare in “researchese” quello che fa, significa chiedergli di entrare in un mondo che non gli appartiene storicamente, ma che, allo stesso tempo, non gli è precluso in maniera assoluta: se il discorso tiene, è coerente e si riferisce a dibattiti esistenti, merita di essere ascoltato. Forse qualcosa di vero uscirà. Su questo punto ci allontaniamo dalla visione di Croft. 

Sono d’accordo sul fatto che ci sia un’incongruità tra la maniera in cui una composizione è valutata, in termini di impatto per esempio, e la composizione stessa. Capita infatti che un compositore che lavori in Università affermi, senza troppi problemi, che il discorso creato per accedere ai finanziamenti sia spesso messo da parte per scrivere il pezzo che si voleva scrivere, senza troppo pensarci: è quasi impossibile stabilire un criterio che permetta di definire il legame tra la composizione e il progetto di ricerca redatto precedentemente. Se si scrive pensando di mettere in risalto il problema del surriscaldamento globale si avrà sicuramente più impatto e chiara coerenza; se invece si lavora su un progetto per sviluppare notazioni d’avanguardia il legame tra il discorso, spesso molto astratto, e il risultato concreto, sarà molto difficile da cogliere pienamente. Come dice Croft:

The incongruity between the act of composition and the way we are required to portray it has not gone unremarked: the advice you’ll receive from a seasoned composer- academic is simply to make up some nonsense to get the money, and then forget the nonsense and write the piece you wanted to write in the first place. The problem with this is not just that funding goes to those most adept at writing nonsense, but that it is hard to avoid at least a passing resemblance between what one says one will do and what one eventually does. If, in order to get some funding, I say that I’m going to write a piece about ‘sustainability’, converting arctic ice cap data into sound files to be manipulated in real time in an internet-mediated free-improvisation event combining live programming, video projection, and social media, and if I get the money and then just compose the ensemble piece I wanted to write in the first place, questions will surely be asked. [Croft, 2015]

Questo mi sembra vero. Però anche superficiale e legato alle diverse storie personali di ognuno, come insegnante e membro di istituzioni “complesse”: a volte manca il senso, anche se facciamo qualcosa di molto chiaro e scientificamente rilevante. Per Croft due piani si contraddicono: la ricerca descrive una realtà, un oggetto o un processo; le composizioni non descrivono ma aggiungono qualcosa al mondo. Croft ha ragione, ma pensiamo di non potere limitare la discussione a questa reale divisione. Un livello più profondo ci sembra apparire: quello del dubbio, che aumenta sempre di più. 

La ricerca mira alla generalizzazione, la musica alla singolarizzazione. Insomma, dice Croft, possiamo immaginare che se Einstein non avesse scoperto la relatività, qualcun altro lo avrebbe fatto; se invece Beethoven non fosse esistito, nessuno avrebbe scritto la IX sinfonia. La teoria di Einstein include quella di Newton; Schoenberg invece non include Bach. Croft ha ragione a dire che la retorica della ricerca obbliga i compositori a stiracchiare i loro progetti per farli entrare nello “stampo” dei comitati ministeriali. Non vi è dubbio. Però non sono gli unici, credo. Certo è difficile definire l’impatto della musica sulla comunità scientifica; ma forse non ne siamo ancora capaci e il contesto come tale oggi lo rende difficile. 

Quindi, proporrei di porci nella situazione di osservare e giudicare l’esistente e di capire che, se oggi succede tutto ciò, un perché ci sarà. L’avvicinamento esplicito e istituzionale tra arte e scienza è forse il segno di qualcosa, di buono o cattivo, che definisce uno spazio musicale nuovo e da non buttare interamente. Tutto il discorso di Croft sembra giusto. Un compositore fa quello che gli pare, critica, ascolta, seleziona, butta, legge, pensa, ma non ha vincoli scientifici, di solito. Assolutamente vero. 

Ci sono però aspetti che emergono dal discorso di Croft che non mi convincono. A lato e poco visti. Giustamente Croft si pone delle domande logiche e precise, ma forse non guarda al contesto in cui tutto ciò sta avvenendo. Croft guarda alla sola differenza tra arte e scienza, senza fare sforzi per trovarne i punti di contatto. Ci sono degli aspetti da evidenziare. 

Il primo è il contesto economico. Nell’attuale trasformazione del mercato artistico, e in particolare musicale, le università sono probabilmente i luoghi migliori per continuare a portare avanti progetti musicali utopici. Peccato redigere progetti inutili; ma nulla toglie che forse, tra quei progetti, qualcuno può essere veramente interessante, e toccare non solo la musica di per sé ma anche le altre discipline. 

Il secondo è il contesto intellettuale. La musica può essere oggetto delle altre discipline, della musicologia in primis, ma manche delle neuroscienze, dell’informatica e della medicina; avere dei “creatori” in casa, cioè nelle università, potrebbe portare a porsi domande nuove, completamente inattese, di cui anche le altre discipline necessitano. In questa frequentazione quotidiana i compositori possono diventare coscienti di che cosa si inventa oggi nelle università, e i ricercatori possono porsi domande sul perché un compositore stia andando in certe direzioni. Per l’informatica può essere un grande stimolo, ma anche per psicologi e sociologi attenti. Se invece di fare sociologia lontani dagli artisti la si facesse con un compositore accanto i ricercatori sarebbero allora di fronte ad una reale presenza del fare musica oggi. Il problema allora è un altro: tempo e sinergia. Serve tempo per ascoltarsi, sempre di più, in un mondo in cui anche i compositori fanno ricerca; serve anche sinergia, perché la ricerca artistica e scientifica possono trovare un modo per dialogar proficuo. 

Un altro punto, sempre contestuale, è il seguente. Croft non si pone la domanda del perché oggi l’arte è nelle Università; vi risponde implicitamente: si tratterebbe di un modo per ottenere finanziamenti che obbligherebbe i compositori a formulare noiosi progetti di ricerca senza crederci troppo. Croft propone infatti di ritornare alle equivalenze dei titoli artistici e scientifici, piuttosto che fare finta di fare ricerca con la musica. Pensiamo invece che una ragione ci sia e che sia una ragione coerente e giusta sia dal punto di vista dell’arte che della scienza. 

Una prima osservazione sarebbe che l’arte in università rispecchia i tempi. Non tutto è scientifico nelle scienze dure, e c’è molta arte nella redazione dei progetti di ricerca; allora forse non tutto è totalmente soggettivo e artistico nei progetti musicali. Mettere insieme arte e scienza evidenzia un’aspetto fondamentale di entrambe le pratiche: il dubbio e la ricerca di soluzioni nuove.  

Una seconda osservazione sarebbe nel fatto che le discipline necessitano oggi come non mai dell’osservazione della complessità dell’esistente, del progetto e della coerenza: non è detto che ogni progetto di ricerca arrivi alle conclusione attese; ma, forse, durante il processo, escono dei risultati importanti. Per esempio, in musica, certi programmi informatici non si sarebbero sviluppati se non ci fosse stato l’impulso dei compositori. Insomma, forse la scienza ha bisogno di essere circondata da artisti che si fanno “domande inutili”; la scienza si trova oggi in un momento in cui le domande devono essere poste in maniera completamente inattesa e fuori contesto per vedere altre possibili strade. Per questo alla NASA hanno bisogno di filosofi che pongono domande sui mondi possibili o nei dipartimenti di fisica cercano artisti che utilizzino le scoperte per creare qualcosa che rappresenti e mostri, in un oggetto estremamente sintetico, le novità e le domande da porsi. Il tutto si tiene perché il dubbio che un qualcosa sia sfuggito, che la prospettiva fino a oggi sostenuta per la quale arte e scienza siano separate, non sia fondamentalmente vera. 

La composizione come ricerca allora, se osservata in sé, forse è un non senso; se invece guardata nel contesto del sapere attuale, sembra avere un posto, ai margini, dal quale può forse far parte di un progresso più generale. Ci sono dei problemi però. Il primo è che le strutture universitarie non hanno tempo per questo: non si creano le sinergie adatte. Quello che potrebbe essere uno scambio razionale e proficuo - finanziare della musica, che ha sempre meno spazio nelle scene pubbliche, in cambio di orizzonti inattesi e contributi culturali fondamentali - non lo è ancora perché manca una riflessione, mi sembra, sul sistema della conoscenza. Se gli artisti inventano e rispondono a delle domande, fanno fondamentalmente quello che fa un ricercatore e il beneficio del dubbio, ci impedisce, fortunatamente, di scartare delle possibilità così vive e importanti. Gli artisti partecipano al progresso del sapere. Un artista può rappresentare, come metafora, una teoria scientifica. Può mostrare. 

Non sempre però la metafora può essere capita. Come sottolineava Eco in Opera Aperta, le opere d’arte possono essere “metafore epistemologiche”. Per esempio le opere aleatorie del secondo dopoguerra erano metafora epistemologica della varietà di prospettive che la fisica quantistica mostrava in quegli anni. Il problema, però, oggi, è che non sappiamo vedere il legame tra le scienze e le arti. Non sappiamo e non conosciamo in che modo i nostri pezzi possano rappresentare i progressi e le inquietudini scientifiche. 

Secondo me l’arte è ancora metafora epistemologica. Il problema però, mi sembra, è che la metafora ci sfugge e che ci manca una visione globale e organica del sapere e delle tecniche, scientifiche e artistiche. Il problema della composizione come ricerca e dell’inutilità di un tale approccio non tocca quindi solo l’arte, ma forse anche la scienza, che si trova a fare ricerca senza una direzione precisa, spinta da ragioni concrete di protezione dell’impiego piuttosto che di ricerca d’avanguardia. Abbiamo milioni di ricercatori e artisti: come fare per farli dialogare sul serio? 
In conclusione ci sono due sensi nel termine composition-as-research. Uno negativo, per cui l’arte come ricerca rispecchia una pratica che cerca, affannosamente, di continuare a vivere in un contesto che non le è stato proprio da secoli; uno positivo, per il quale l’arte e la scienza condividono i fondamenti e sono l’una stimolo dell’altra. La prospettiva è quella del dubbio e dell’inquietudine, ma anche quella della condivisione e comprensione che stanno alla base di una squadra di ricerca che possa porre domande nuove e dare un po’ più di senso al tutto. 


1 commento:

  1. Eric, la prospettiva che esponi mi suscita domande : forse la musica di oggi guarda al contesto in cui è inserita solo in certi momenti, a singhiozzo per così dire, e d'altra parte non so se il contesto raccolga gli sguardi della prima con attenzione o curiosità - dipende appunto dal contesto. Mi chiedo se le ricerche dei compositori o delle compositrici entrino in sinergia con il qui e ora, se le pareti che separano il mondo del quotidiano e quello dell'arte musicale possano essere permeabili. Sono ottimista, per me è così, le aperture esistono, forse sono fragili, o effimere, o agiscono a livello incosciente, ma ci sono. Coincidono con gli autori o le autrici stesse, che accolgono la possibilità di essere toccati da tali istanze nel loro stesso animo. Per me i contatti fra ricerca e mondo sono mantenuti negli sforzi di chi compone, ma neanche chi compone può sapere fino a che punto ciò accade, o perché. Siamo scatole nere a noi stessi?

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