domenica 1 marzo 2015

Che cosa mettere nel carrello?

di Mariangela Vacatello 


Questo post che scrivo per /nu/thing nasce come una piccola testimonianza sul ruolo che la musica contemporanea ha nella mia vita. Questa era l’intenzione, ma fin dalle prime parole scritte mi sono resa conto di quanto questo spazio voglia essere un modo per condividere pensieri e confrontarmi con altri giovani interpreti che si pongono delle domande sul futuro musicale inteso in termini di repertorio. 

Per i pianisti della mia generazione, allattati dalla tradizione delle scuole e accademie pianistiche internazionali, il momento del distacco dal “genitore protettivo” è cruciale. La didattica per il concertista iper-funzionale si traduce spesso in approcci di tipo genitoriale, con gli annessi vantaggi e svantaggi. L’urgenza dell’incremento del repertorio, così come la necessità di forgiare professionisti capaci di affrontare programmi nuovi in poco tempo, lasciano spesso uno spazio inadeguato alla maturazione artistica più consapevole. Si tratta di “efficacia della didattica”: il Maestro insegna e l’allievo suona. 

Ciò che rimane all’ombra di questa linearità però non scompare, sembra piuttosto riemergere subito dopo il distacco, quando si è obbligati a diventare maestri di se stessi. Quesiti che sembravano semplici, a volte ingenui, iniziano a ostacolare il quieto vivere. Tutto sembra dover essere assunto nuovamente, ma da un’altra voce, la propria. Il lavoro che per anni si è svolto in un modo, cambia forma e le domande iniziano a rispondersi con altre domande. 

Il repertorio è un argomento fondamentale, non tanto per i brani o gli autori che si studiano, ma perché ben presto si capisce che nell’atto dello sceglierli si realizza una sorta di primo, vero e autonomo segno di desiderio d’indipendenza artistica. C’è poi la memoria di un capitolo nel capitolo, una sorta d’investimento apparentemente a basso rendimento che non viene quasi mai consigliato al giovane interprete: il paragrafo di storia che l’insegnante non fa in tempo a spiegare perché ormai troppo a ridosso dell’inizio degli esami... 

La musica contemporanea quando inizia? Chi rappresenta la mia contemporaneità? Come affrontare alcune delle nuove partiture? E soprattutto, come posso scegliere il repertorio più adatto a me? La scelta è una dimensione di proposta verso i musicisti delle generazioni future; la scelta del nuovo repertorio è un messaggio verso chi suonerà dopo di me. Il mio bagaglio non sarà, auspicabilmente, del tutto mio. 

Per orientarmi posso partire dall’assunto (del tutto personale) che l’interprete non è un genio: i geni inventano, scoprono, compongono. Gli interpreti devono allora decifrare il compositore, decodificare il testo, ricrearlo in una dimensione di ascolto efficace (che qui non significa in alcun modo forzare il testo verso un ascolto gradevole). Noi stessi siamo però chiamati a inventare un “come”: nel rapporto con il pubblico dobbiamo rendere intelligibile il testo e la nostra lettura in diversi piani percettivi, ricordandoci che, nella maggior parte dei casi, chi abbiamo alla nostra destra conosce meno di noi ciò che stiamo eseguendo. 

Tutto ciò sembra essere piuttosto ovvio, ma nel caso della musica nuova questo gesto creativo nascosto (proporre il nuovo ascolto), non può che spaventare particolarmente. In questo repertorio il tasso di responsabilità è diverso. L’interpretazione non ha tradizione, non ci sono reti di sicurezza e, a questo punto, rischia di verificarsi la scelta più comoda: eseguire piuttosto che interpretare, applicare il gioco del distacco dalla partitura ponendosi in un’ottica puramente realizzativa. Serve forse e comunque interpretare, accogliendo la sfida nella sua totalità; ed è necessario che la musica nuova si ponga senza compromessi nell’ottica d’essere interpretata, come gesto di unione tra compositore e interprete. Trascorriamo ore sul nostro strumento a capire qualcun altro e questo non è facile, il fatto che sia morto o vivo non dovrebbe far differenza rispetto all’approccio con il testo. 

In generale c’è forse uno scollamento tra gli interpreti che si occupano in modo specialistico di repertorio contemporaneo e quelli che semplicemente vorrebbero avvicinarsi a questo mondo a carriera avviata ampliando il proprio repertorio. C’è una barriera: chi vanta un “saper fare” contemporanea raramente riesce a proporre un concerto di Liszt, mentre chi si cimenta di prassi nelle sale da concerto con repertori classici non è in grado di proporre collaborazioni con compositori e progetti di nuova musica e forse non è in grado di maturare attraverso i percorsi dell’arte contemporanea. La pratica “fast food” (la piccola eccezione alla regola) risulta spesso essere l’unica chance d’intromissione nei presunti contesti altrui, tutto ciò però non è sano. 

In un’epoca in cui i limiti tra le arti e tra i generi vengono sempre più a cadere, è forse assurdo che persista una visione esclusiva del repertorio ed è soprattutto inconcepibile soffrire di una difficoltà di accesso nei due circuiti. 

Manca qualcosa nel mezzo, manca la diffusione: troppo poca e troppo poco user-friendly per chi è interessato a confrontarsi con i repertori contemporanei o per chi semplicemente vuol capire se è interessato o meno. Non è facile conoscere compositori e non è facile sapere a cosa stanno lavorando, è difficile avere accesso alle partiture: l’editoria spesso non favorisce chi vuol iniziare a vedere partiture. La soluzione sembra essere il fare conoscenza con le persone che si occupano di questo (ad esempio in ambito editoriale) e chiedere informazioni… ma a mia volta mi chiedo se questo sia giusto. Mi sembra una pratica illogica e farraginosa. 

Chi viene dal repertorio esclusivamente classico ha bisogno che il tipo di accesso al nuovo sia, almeno in parte, simile all’approccio con cui ha confidenza: si comprano le partiture al netto dell’esecuzione, per averle e consultarle. Si comprano spartiti perché magari ci vengono consigliati, c’è insomma una sorta di filtro nella proposta. Spesso nel repertorio contemporaneo tutto ciò non c’è e se vuoi capirci qualcosa telefoni a qualcuno e poi ti arrivano valanghe di materiali privi d’ogni senso di proposta. In questo shock da impatto, a mio avviso, si perdono enormi possibilità di produzione. Il sistema italiano della contemporanea sembra volerti dire “o tutto o niente”. Mancano dei libri (parole non musica) che facciano capire, l’editoria di divulgazione è pressoché assente. Se suono qualsiasi autore classico posso reperire informazioni dettagliate in ogni modo, se suono contemporanea ho scarsissime possibilità di leggere parole utili a contestualizzare meglio il mio lavoro al pianoforte. 

I miei primi contatti con la contemporanea hanno sofferto di tutto questo: in alcuni concorsi internazionali è spesso imposta ai partecipanti l’esecuzione di un brano commissionato appositamente. In questo caso il compito dell'esecutore è davvero poco artistico: per quanto bene si possa studiare (per ambire alla finale o a un premio), l'importanza del brano sembra rispondere a esigenze di riconoscimento pubblico per il compositore stesso e per il concorso (nobilitato dall’alta azione culturale della commissione), il tutto sembra muoversi nella dinamica del brano d’occasione. Il contatto col compositore è nullo o ridotto all’osso, non c'è possibilità d’interazione e quindi l'esecuzione arricchisce ben poco il proprio bagaglio di esperienza. Questa che potrebbe essere una bella possibilità, si riduce alla secca esecuzione di un brano, torno a dire… obbligo di realizzazione vs interpretazione. 

La molteplicità di stili e approcci del “contemporaneo musicale” è spesso vista, da chi vorrebbe saperne di più, come un pericolo per il futuro dello stesso, la difficoltà di orientarsi però, non può originare un fraintendimento: il tempo necessario all'approfondimento non deve scoraggiare l'interprete. La mia generazione di strumentisti deve farsi carico della responsabilità di una lucida azione sui repertori contemporanei, nei limiti dei percorsi personali e delle proprie risorse tecniche. C'è bisogno di apertura da parte nostra, di accettazione del rischio ed è necessario che il "sistema musica contemporanea" crei diffusione per saziare un appetito interpretativo che, se frustrato, rischia di generare una colpevole ignoranza e una grave perdita di crescita culturale (personale e sociale). 

In realtà è rinfrescante potersi tuffare in questo mondo, scoprire e talvolta voler approfondire, rimanere delusi o piacevolmente toccati, sapere che ci sarà sempre qualcosa da cercare. La difficoltà di una comprensione più approfondita di linguaggi e approcci nuovi è assolutamente reale e innegabile, ma ciò non dovrebbe compromettere la ricerca compositiva della profondità del contenuto e non dovrebbe risolversi (per chi scrive e per chi suona) nel più comodo sacrificio dell’atto interpretativo. Ci vuole, forse e semplicemente, il giusto tempo e il giusto impegno per confrontarsi con il nuovo, si deve maturare la consapevolezza delle giuste domande da porre a una partitura o a un compositore, ma la sfida ha forse senso solo se la si affronta nella sua totalità, e nella freschezza dell’assenza di compromesso.

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