lunedì 23 febbraio 2015

Strumenti per uno scopo

di Giovanni Verrando



Gli strumenti musicali sono un mezzo.
Modelli esemplari di protesi del nostro corpo, risorse per un’esplorazione 'esosomatica' con il fine di produrre suoni semplici o formalmente organizzati, essi sono mezzi sofisticati, spesso eleganti, perfezionati di epoca in epoca per rispondere ad esigenze reali e diverse (complessi strumentali, funzioni religiose, timbri particolari, generi musicali e così via). Lo stupore generato dalla loro fattura, la ricchezza di tali protesi, il loro potenziale tecnologico, portano talvolta a trasformarne la condizione, trascinandoli in un territorio indeterminato che sta tra il mezzo e il fine.



Scrive Carlo Sini:
“Una lamina di selce ricavata da un blocco di pietra esige, per la sua preparazione, una mediazione o una doppia azione corporea. Questa azione deve anzitutto trasferirsi o prolungarsi in una ‘cosa’, per es. un sasso usato come percussore, cioè come un prolungamento della mano o del pugno; ma poi, utilizzando appunto questa ‘cosa’, l’azione deve produrne un’altra, la lamina di selce staccata dal blocco di pietra. Questa doppia azione richiede dapprima uno scopo deviato, qualcosa che non fa più corpo e non si identifica con l’azione e che assume perciò un potenziale senso esosomatico (agire A per ottenere B). […] L’intera azione esige un ‘progetto’ da tradursi in un ‘procedimento metodico’, ovvero, in una protesi.” [Carlo Sini, da “Il lavoro e le forme del fare”, in Nóema, Numero 2, anno 2011]

Il passo che descrive la protesi come una tappa del progetto è utile per chiarire come ho dato sfogo ad un immaginario che avvertiva costrizione nei suoni predeterminati dalle fattezze strumentali acustiche, e che desiderava elaborare un linguaggio in grado di riequilibrare, a mio uso e consumo, l’armonico e l’inarmonico; esso inoltre illustra perché mi sono trovato, come altri autori trapassati e presenti, a ragionare sui mezzi.
Cosciente della legittimità di posizioni molto diverse sull’argomento, e del fatto che il pluralismo che caratterizza la nostra epoca si rivela spesso fonte di estro e stimoli, tratto sommariamente di questa tesi come parte di un insieme di considerazioni che mi hanno condotto a lavorare sulla nuova liuteria.
Per questo fine ho dovuto ragionare, oltreché sul suono, sui nomi che catalogavano gli strumenti, sui gesti strumentali, sulla figura del musicista.

Sul nome.
È a partire dai nomi propri degli oggetti, degli strumenti e della fenomenologia ad essi correlati  che si scorgono i confini dell’oggetto stesso, della materia osservata e adoperata. Il nome ne descrive il territorio d’azione e le potenzialità, offre istruzioni per l’uso, disegna il contesto e illustra una tradizione.
Gli appellativi che l’Occidente ha dato alle famiglie strumentali, sembrano confermare questa tesi. Archi, strings, schlaginstrumente, bois, sono solo esempi di nomi che descrivono talvolta il materiale, altre volte il gesto dello strumentista, altre volte ancora l’utensile impiegato per produrre suono. La famiglia delle percussioni si è così battezzata perché era inizialmente identificata con un inviluppo univoco (attacco immediato, senza sustain e con un release variabile) e con un singolo modo per ricavare suono: l’atto del percuotere. Noi però sappiamo bene che, dai primi decenni del ‘900, il percussionista ha visto espandere a dismisura il proprio organico, ampliando la gestualità (non più solo percuotere, ma strofinare, grattare, etc.) e gli inviluppi connessi. 
In modo simile, la famiglia degli archi è descritta da un manufatto (l’archetto in legno e crine) che ad oggi non sempre e necessariamente si rivela il mezzo più utile a emettere suoni e timbri desiderati su quegli stessi strumenti.
Quest’ultimo passaggio chiarisce meglio il progetto, il ‘procedimento metodico’ che genera la protesi, così ben esposto da Sini. Se non desidero che lo strumento condizioni o peggio imponga al mio immaginario un proprio modo, per ricondurre il mezzo ad un mio fine sonoro ne analizzo il nome, la gestualità che esso racconta, l’approccio che in esso è contenuto. In seguito posso a mio piacere costruire uno strumento specifico, rimodellarne uno esistente, adoperare materiali concreti e così via, come più volte è accaduto nella storia. L’accento non cade innanzitutto sulla soluzione adottata, ma sul procedimento e sullo scopo: ciò che più conta è l’affermazione della mia volontà di rappresentazione, il progetto che definisce la protesi.

Sulla figura del musicista.
Tra le molte ragioni che mi hanno mosso ad una ricerca sulla liuteria, vi è l’esigenza di produrre ed organizzare suoni immaginati in base alle loro proprietà interne: brillantezza, stabilità, tasso di inarmonicità, gestione della prospettiva spettrale, etc. L'avvento di una nuova liuteria, l’avanzamento di nuovi modelli di approccio alle protesi, la gestione dei dettagli spettrali, non possono essere affrontati dall'esecutore con la preparazione tradizionale di sempre. Per capire come agire sulle micro-proprietà dei timbri prodotti, come sollecitare una fascia spettrale situata al di fuori del registro ordinario del proprio strumento o come gestire le qualità dei diversi suoni inarmonici, è senz'altro opportuno, se non necessario, che il musicista si sappia ad esempio orientare nello spettrogramma.
Inoltre, la lavorazione di nuovi mezzi o l’adeguamento di quelli già esistenti, richiede un periodo di training allo scopo di produrre ed interpretare i suoni richiesti, i gesti connessi, il linguaggio rivelato da una notazione idonea agli obiettivi. C’è bisogno di un solista d'orchestra o d'ensemble non più esclusivamente esperto e virtuoso del proprio strumento, ma consapevole delle leggi principali della fisica acustica e della psico-acustica, propenso a comprendere le ragioni ultime della metamorfosi subita dalla sua specifica protesi o la richiesta di agire su mezzi non usuali per la sua quotidianità musicale.
Intorno al progetto e all'evoluzione degli strumenti si è così sviluppata una sensibilità che reclama una revisione dell'immaginario collettivo del musicista, del solista strumentale. Non più solo un navigatissimo ed intelligente interprete a contatto con la concretezza del proprio strumento, ma uno studioso delle proprietà del suono, abile controllore dei fenomeni sonori prodotti, consapevole di agire A, nel modo più competente possibile, per ottenere B. Ciò può accadere soprattutto ripensando la didattica strumentale e abbinando, all’esperta manualità interpretativa, la formazione scientifica sulle leggi spettrali, la ricerca sulla notazione e la gestione del suono in senso più generale. 

Le osservazioni esposte sono solo frammenti del vasto dominio teorico e operativo intorno alla nuova liuteria, e ringrazio gli amici di /nu/thing per avermi cortesemente invitato a sviluppare un brandello del ragionamento sul loro interessante e vivace diario. 

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