domenica 17 marzo 2013

Socialità. Tra cerchie e solitudine.


In un precedente post mi sono soffermato sul carattere spiccatamente autoreferenziale di parte della critica musicale italiana: cultura = spettacolo, niente studio delle fonti contemporanee, lenti ingiallite e quanto mai orgogliose di esserlo. Ora vorrei riflettere su un punto a me più caro, spesso fonte di distratti pensieri e di solenni arrabbiature miste ad affetto sincero. I compositori nostri maestri: conosciuti frequentati o semplicemente ammirati per le loro opere.

Guai a fare di tutta l'erba un fascio e guai a proporre dei distinguo generazionali dal sapore di rottamazione, appetiti insani sono spesso presenti in quantità esponenziale nella categoria "allievi dei maestri". Mi limito a definire "nostri maestri" i compositori italiani che godono di strameritata fama artistica e stima del contesto mondiale e mi limito a cercare di capire se c'è traccia di una qualche loro responsabilità di categoria nelle dinamiche che portano l'Italia musicale a galleggiare.

Credo sia una riflessione giusta da fare, e credo che la risposta sia forzatamente scontata: è difatti certo che hanno delle responsabilità, come è bene che rivendichino un qual certo legame di paternità con il percorso dei giovani compositori con i quali hanno condiviso arte.

Faccio un passo indietro: è già stato detto più volte che una delle ragioni di questa iniziativa risiede in un rinnovato bisogno di focalizzare un concetto portandolo allo scoperto: il contesto artistico legittima l'azione dell'artista. Contesto dunque, dimensione sociale complessa composta da creatori, fruitori, interpreti, analisti, programmatori, critici e quant'altro, ognuno dei quali rappresenta – se vogliamo – un contesto più piccolo.
I rapporti di forza che legano queste parti del puzzle hanno creato negli ultimi anni una macchina di gestione della politica musicale italiana estremamente particolare, le cui scelte (sempre meno oggetto di discussione aperta) si sono tradotte in fatti. C'è chi ha partecipato a queste scelte curando per lo più il proprio interesse, c'è chi l'ha fatto pensando alla difesa del bene pubblico, c'è infine chi ha scelto di non curarsene.

Si tratta di pulsioni etiche, motivate ritrosie artistiche, anche – perché no – di scelte di coraggioso svincolo: perché in epoche non tanto remote la legittimazione politica ha persino interferito sul contenuto artistico in modo subdolo, passando da legittimazione a strumentalizzazione. Parlo qui dei compositori più maturi che il nostro paese ha espresso negli ultimi anni e mi chiedo come nel loro percorso artistico si sono rapportati con la questione della socialità della cultura musicale. 

Sembra un tema di altri tempi, sicuramente è scivoloso: socialità.

A tutti conviene rivendicare lo status di artista solitario, c'è un'aura di purezza che ancora oggi circonda chi si definisce così, nonostante il nonsense quotidiano dell'epoca dei social networks (come delle quaranta mail al giorno, dei telefoni che squillano, delle classi e masterclasses…). Spesso insomma ci si dimentica che non si è soli e che addirittura la prassi compositiva in équipe è regola per chi fa ricerca con interpreti e ancor più chiaramente in domìni prossimi alla musica elettronica. L'artista solitario si distingue (come ci dice il già citato Kubler) dall'artista con istinto gregario (del quale sfrutta la caratteristica di moltiplicatore del segnale) e in definitiva tutti sognano d’esser solitari. "Al di fuori della sua cerchia professionale, i suoi ammiratori contemporanei saranno probabilmente gente che apprezza in lui l'uomo più che la sua opera... Tutti i grandi artisti [della storia dell'arte] appartengono probabilmente a questa classe di solitari funzionali".

La cerchia, già: questo sembra essere l'unico momento di socialità concesso alla decenza dello status di artista. A essere quindi più acuti dunque, la scelta e i criteri di selezione della gente della cui stima vuoi nutrirti è atto compositivo anch'esso, ed è un atto di socialità. Amici, colleghi, interpreti; a tutti noi è capitato o capita di vivere incontri proficui o fratture nette: scelte di esclusione o inclusione in certi casi del tutto prossime alla divina spietatezza dello scrivere musica. Dentro o fuori, sapendo che la mia dimensione sociale ne sarà dedotta e che questa parlerà per me in mia vece. Meccanismo potente che s’incrocia con un'altra macchina che muove la storia dell'arte: la rivalità. Bernini e Borromini, Poussin e Rubens, Eliot e Joyce, Klee e Picasso (sempre da Kubler).

Ora ricapitoliamo, sì siamo esseri sociali, sì facciamo parte o creiamo cerchie inclusive o che escludono rivali con altre cerchie. Il contesto della politica musicale mondiale è spesso stato determinato dalle lotte tra cerchie rivali, finché qualcosa (almeno in Italia) è forse accaduto sotto i nostri occhi, l'armamento degli eserciti (cerchie) guidati da capitani non sempre coraggiosi ha fatto morire di fame la povera gente (pubblico), niente guerre e niente pane: sono rimasti solo gli eserciti e cinque superstiti civili (una è la promessa sposa di un soldato).
Nel mentre la parola "cultura" scompare dalla politica e dal tessuto sociale.
Questa fiaba militare è triste, senza finale e probabilmente è un falso storico. Degli slanci ci sono, grazie anche a qualche cerchia più illuminata e con appetiti ancora inclusivi che ci danno speranza. Rimane però una soffusa atmosfera di smarrimento della nuova generazione, che spesso rimane appesa nel vuoto e talvolta è addirittura contesa tra i maestri stessi.

Al netto di alcuni notevoli segnali di apertura appena testimoniati (Divertimento Ensemble e /nu/thing) e di altri in procinto di realizzazione (di cui /nu/thing e Divertimento Ensemble sono forse causa e di questo siamo entusiasti), a fronte della fatidica manciata di spettatori: non possiamo ritenerci appagati. Siamo un po’ tristi quando gli sforzi di produzione e le giornate (mesi) di lavoro gratuito si risolvono in un inequivocabile disinteresse sociale.

L'esperienza bi-polare di "confortante accondiscendenza - sconfortante disagio esistenziale" che prova ogni bravo compositore giovane italiano dopo un concerto è la regola del sistema.

Conforto sì, perché in uno stato di precariato culturale è confortante sentire la buona parola del collega maturo che ti benedice. Fa bene, a patto che non diventi accettazione di una qualche forma di dipendenza dalla cerchia. Se qualche anno fa tutto ciò era possibile e, per certi versi, auspicabile, se qualche anno fa era sufficientemente consolatorio, bene, ora non è più così. Tale livello di precarietà tende a svuotare tali gesti di "riconoscimento" sociale e rende ridicole querelle sull'etichetta dei generali d'armata. Quanto allo sconfortante disagio esistenziale... beh, la passione supplisce all'assenza d’investimenti solo entro un certo limite.

I compositori e interpreti europei tra i trenta e i quarant'anni che hanno qualcosa a che fare con l'Italia constatano l'impossibilità di parlare con referenti politici, spesso con direttori artistici: in pratica non sanno a chi e come poter presentare un progetto. È pressoché impossibile ragionare per co-produzioni europee. Nel migliore dei casi essi vengono contattati per lavori con commissioni minuscole o a titolo gratuito; se hanno a che fare con l'alta formazione musicale... beh... sanno che saranno per sempre (o molto a lungo) precari.

Può esserci una reazione? La risposta è: deve esserci. Siamo contenti quando le aperture abbracciano le nuove generazioni in modi diversi dalla pacca sulle spalle. Siamo felici quando creiamo criticità, è necessaria una riflessione a carte scoperte. Non ci vergogniamo di dire che la manciata di spettatori è uno scempio perché ci rendiamo conto che non parliamo più la lingua di quella manciata. Non ci vergogniamo di immaginare soluzioni "altre" perché non è vero che se lo si fa si cede a compromessi con l'intimo rigore professionale di ciascuno di noi. In definitiva non ci piacciono le cerchie paurose: sono pericolosamente chiuse. Il nascondersi dietro una bandiera blocca la vista degli orizzonti di possibile conquista e arricchimento sociale e culturale. La paura che pone divisioni sul piano del genere e non su quello della genuinità del messaggio è forse figlia di un atteggiamento ipocrita: cercare di entrare nei libri di storia scegliendo di giocarsela nell’irreale campo di battaglia disegnato dagli storici.

Piuttosto che nasconderci dietro questo palese fraintendimento artistico, scegliamo di non partecipare a questa guerra. Preferiamo le cerchie illuminate, ma in definitiva sarebbe forse l’ora di predicare, almeno in parte, un messaggio di disarmo e di condivisione: le cerchie vanno quantomeno indebolite. La sfida di ridare pane culturale all’Italia è principalmente sentita dalla nostra generazione perché in primis essa sente la paura dell’estinzione. Proviamo sconforto ogni qualvolta si legge che in una raccolta pubblica di firme per l’interesse comune i rappresentanti del mondo musicale sono Jovanotti o Gino Paoli. Scrittori e altre figure intellettuali si esprimono, e i nostri muscisti colti? Tranne i casi di Ughi, Accardo, Pollini e Abbado nessuno esce allo scoperto. I compositori sembra non rispondano all’appello delle istanze sociali. Questo vuoto si sente ed è forse tra le cause dell'eccessivo provincialismo delle nostre strutture musicali. Di questo si parla ormai solo per vie informali, spontanee e sul web.

Abbiamo bisogno di segnali, diteci dove sono i problemi e cerchiamo di fare fronte comune, di reagire. La stampa si rifiuta di parlare di musica d’arte? Bene: attrezziamoci, chiedeteci pure di fare da testa di ariete, ma cerchiamo un terreno comune in cui l’esposizione di un contesto riacquisti forza sociale. Identificare delle mission condivise e agire il più possibile uniti.

Siamo stanchi di una visione esclusivista del nostro mondo, ma siamo coscienti che non si può del tutto biasimare chi ci guarda da fuori con gli occhi di chi non riesce a godere di uno stimolo. Le cerchie che escludono ottengono due risultati: si corroborano della loro autodeterminazione e rimangono sempre più piccole.

Da un punto di vista più squisitamente musicale, siamo stanchi dei veti sul vocabolario del compositore di musica contemporanea. Pubblico, leggerezza, esattezza, freschezza, divertimento, morbidezza, sensualità, meraviglia, plasticità, ironia, istinto, visione, facilità, violenza, ispirazione, ambiguità, movimento, filigrana, paradossi: sono tutte parole che vivono nella nostra musica, e la contemporaneità non è più sinonimo di filtraggio di presunte nobili posture linguistiche o, peggio, acustiche. Esigiamo il giudizio in base all’autenticità e alla radicalità del segno e non in base al grado di prossimità al mondo o cerchia musicale che ci ospita; non si tratta più di moralismo ma di necessità.

Di fronte a tale scempio non accettiamo che la criticità di un vocabolario svincolato dai percorsi accademici italiani porti alla negazione dell'evidenza.

Milano, 6 Marzo 2013: concerto Carta Bianca DE - /nu/thing, dibattito.

Cominciamo a dire le cose come sono senza tanti fronzoli: il solo ipotizzare che il brano Mnemosist S di Yannis Kyriakides non sia musica equivale al più becero negazionismo culturale. Tali posture analitiche non devono essere insegnate e devono essere stigmatizzate. Ritenere tale brano una potenziale offesa all’intelligenza di qualcuno, non solo equivale a una probabile errata valutazione dell’intelligenza in oggetto, ma molto più tristemente spinge verso la constatazione del fallimento del contesto.

Il diritto di giudizio è altrettanto sacrosanto del giudizio sui criteri che lo ispirano.

Se nulla cambia, sarà un piacere cercare altri compagni di conversazione, cosciente che con ogni probabilità continuerò a parlare italiano solo con i pochi compositori con cui scelgo di parlare ora: gente che ha padri e non padrini, amici e non commilitoni. L’apertura al dialogo quantomeno tollerante è però una postura alla quale non rinuncio, credo debba necessariamente e prepotentemente rientrare a far parte del codice deontologico del compositore.

14 commenti:

  1. Grazie Marco, post bellissimo, che mi sento di sottoscrivere completamente. Specialmente in un punto a me molto caro: "Siamo felici quando creiamo criticità, è necessaria una riflessione a carte scoperte. Non ci vergogniamo di dire che la manciata di spettatori è uno scempio perché ci rendiamo conto che non parliamo più la lingua di quella manciata. Non ci vergogniamo di immaginare soluzioni "altre" perché non è vero che se lo si fa si cede a compromessi con l'intimo rigore professionale di ciascuno di noi." Non avrei saputo dirlo meglio. L'ho già detto nella discussione di cui Marco parla: continuo a pensare che questo oggi sia IL problema.

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  2. In questo tuo post Marco metti, con esattezza chirurgica, il dito nella piaga.
    Per loro natura quelle che chiami cerchie finiscono col fare del loro perimetro una barriera - sempre più alta con il passare del tempo - rendendo proprio per questo la cerchia via via più ristretta. Forse questo processo di sclerotizzazione è probabilmente naturale e ad esso può contrapporsi solo la responsabilità individuale, che vuol dire apertura e inappagata curiosità.
    Per questo è necessario rivendicare la natura plurale del linguaggio, il suo essere in continua evoluzione, il suo fisiologico aprirsi e mescolarsi non solo con dialetti e idiomi di differente provenienza ma anche il suo pieno relazionarsi ad altri linguaggi.
    Mettere in dubbio l'essere musica del brano di Kyriakides mi ricorda vagamente posizioni che un paio di decenni fa negavano Giacinto Scelsi come compositore . . . quanto più alte sono le mura erette a protezione della propria cerchia tanto più forte è gridata la paura per ciò che potrebbe minarne la solidità.
    Naturalmente dobbiamo essere perfettamente consapevoli di essere tutti in una cerchia di relazioni, ma questa consapevolezza ci deve spingere a fare in modo questa sia permiabile, flessibile, aperta.
    Non so se sia proprio necessario fare da "arieti" - può darsi - mi piacerebbe però di più che bastasse tenere porte e finestre aperte proprio come avete fatto con il progetto che avete portato a Milano e Bologna e come fate con le pagine di questo blog.

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  3. Marco, condivido questo post in ogni suo passaggio, e a maggior ragione nel suo spirito che esprime un disagio che non possiamo non avvertire: che è evidentemente un riflesso di un disagio molto più grande che accomuna, per ragioni sostanzialmente identiche, una grande maggioranza dei nostri coetanei italiani e non solo. Nel contesto della catastrofe sociale ed economica del nostro paese (di nuovo, e non solo) ovviamente ci va di lusso. Non mi sogno neanche di paragonare la mia vita di musicista, insegnante e ricercatore a quella di persone che fanno un lavoro orrendo, sono sfruttate da chiunque possa esercitare su di loro un briciolo di potere e alla fine del mese non sanno come faranno a pagare le bollette. Però in fondo siamo solo in un posto più comodo della loro stessa barca: cervelli in fuga, precari a vita e compagnia bella. Ma proprio per tutto questo mi piace moltissimo il distinguo che fai all'inizio sul rischio di un atteggiamento "rottamatorio": ci vuole attenzione e precisione nell'analisi di questo momento e nella ricerca di soluzioni. Mi viene in mente, forse un po' a sproposito, una frase di Calvino:
    "Credo giusto avere una coscienza estremista della gravità della situazione, e che proprio questa gravità richieda spirito analitico, senso della realtà, responsabilità delle conseguenze di ogni azione parola pensiero, doti insomma non estremiste per definizione".

    Adoro quando parli del bisogno di sfuggire all'esclusivismo. Se c'è una cosa che ci è stata inculcata dai nostri maestri (tutti? no, ma di sicuro tanti) questa è stata un senso elitario di superiorità: non quello narcisista del singolo artista, che forse in qualcuno può anche essere motore di creatività - e che comunque, come tutte le innocue follie individuali di ognuno di noi, rispetto e amo. No, parlo di una superiorità di setta, dettata da un presunto valore assoluto di dogmi estetici e, al limite, tecnici. Rabbrividisco quando sento qualcuno che usa la parola "tonale" come un insulto - scusa, ma Beethoven non è tonale? Ah, capisco, duecento anni fa andava bene. Ma i Beatles non sono tonali? No, devo aver capito male: credi davvero, in buona fede, che il tuo pezzettino per orchestra da camera uguale ad altri diecimila che ho sentito valga intrinsecamente più di Eleanor Rigby per il solo fatto che non contiene accordi di mi minore? (lo stralcio di conversazione è inventato e il mio interlocutore, giuro, non adombra nessuno in particolare… ma ditemi, non vi suona familiare?) Oggi gioco a ostentare burberaggine e giudizi parossisticamente netti, ma in realtà mi faccio un vanto di amare virtualmente tutta la musica, a patto che in qualche modo "bruci", e di sforzarmi di capire quella che non amo: mettendo in gioco parametri di ascolto diversi per opere e concezioni diverse. Non lo farò, ma potrei scrivere a lungo di ciò che posso leggere in Grisey, in Ferneyhough (che, lo ammetto, a volte mi piace), in Perotinus, in Mozart, in Webern, in Coltrane, nei Beach Boys e nei Sepultura. E mi dispiace, non è qualunquismo - lungi da me! Chiamatelo piuttosto agnosticismo se volete. Chiamatelo inclusivismo, la parola è così brutta che quasi la assumo.

    E poi c'è il discorso del pubblico: è uno scempio, hai ragione. E qui lancio un sassolino che un giorno potrebbe anche diventare un post a sé: chissà se oltre alla responsabilità enorme e dolosa delle politiche culturali di un paese allo sfascio; se oltre alla responsabilità ovviamente più ridotta, e comunque fondamentalmente colposa, delle azioni e inazioni sociali di chi ha fatto il nostro mestiere prima di noi; chissà se oltre a tutto questo ci sono state, nella produzione dei compositori che ci hanno preceduti, anche ragioni puramente musicali che hanno fatto scappare il pubblico che invece Berio, Maderna, Donatoni avevano?

    … come dice Eric, tbc…

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  4. … piccola deviazione, a proposito di "questa non è musica":

    La frase originale era in realtà "questo non è un pezzo" - la differenza è sottile - e veniva, cosa che mi ha fatto impressione, non da un maestro ma da un giovane spettatore del concerto: perché se da chi è nell'agone da decenni posso anche aspettarmi un rifiuto di oggetti nuovi e imprevisti (Louis Armstrong disse un giorno che i musicisti bebop dovevano per forza avere pessimo orecchio, lo dimostravano tutte quelle dissonanze), da chi invece guarda il mondo con occhi giovani mi aspetterei apertura, curiosità e, perché no, anche un po' di incoscienza. Ma non è questo il punto che mi interessa.

    Mauro Lanza, che partecipava alla discussione, ha risposto all'obiezione in maniera a mio avviso perfetta. Non so riportare esattamente quello che ha detto e me ne dispiaccio - Mauro, se ci leggi batti un colpo! Però penso di poterne restituire il senso circa così: nessuno, da almeno cinquant'anni, si sognerebbe di dire "questo non è un quadro" o "questa non è una scultura" in una mostra d'arte. Sono posizioni semplicemente assurde, e incompatibili con le definizioni di opera d'arte che tutti condividiamo. Come accade che a un concerto, oggi, qualcuno possa ancora dire "questo non è un pezzo"?

    … e a questa domanda retorica io rispondo a mia volta: forse perché gli strumenti analitici e critici che troppo spesso si mettono in campo nella lettura della musica contemporanea sono vecchi, rinsecchiti, convenzionali, e le altre arti, e i discorsi attorno alle altre arti, intanto ci fanno mangiare la polvere? E quand'è che smetteremo di dormire?

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  5. Quello che dite apre questioni profondissime. Quasi ogni giorno da quando me lo ha detto Paolo Aralla, penso all'idea di comunità musicale che é andata un pò a quel paese. Adesso me lo sono un pò scordato perché sono all'estero da sei anni. Ma me ne sono andato da Torino, dove stavo, per asfissia, inpossibilità di vedere lontano, di avere un riscontro di quello che facevo. Me ne andai depresso, sul serio. Il contesto italiano crea queste situazioni. Gli italiani all'estero sono completamente diversi, perché in Italia sono così? Forse perché queste barriere che si sono create per interessi di vari gruppi, legati spesso a realtà cittadine, hanno smesso di pensare più largamente ai problemi, e forse anche ne sono stati obbligati viste le poche risorse e le poche prospettive. Non ci resta che ribellarci e continuare a insistere che possiamo fare concerti, anche per 30 persone, ma fighi, belli da piangere, con la passione per le cose e l'amore per il dialogo e anche lo scontro. Dobbiamo ricreare qualcosa! Propongo una nuova Woodstock!!!!! Una marea di pezzi, di incotri. Quello che manca in Italia é potersi incontrare. Una volta c'era Siena, oggi non conosco nessuno che ci vada. Forse sono io, ma bisgona creare un luogo di incotro e dibattito nuovo di cui questo blog può essere l'inizio. In fondo tutto ciò é nato perché ci siamo incontrati a mille chilometri da qui. Dovremmo incotrarci a chilometro zero, p. g.! Tutti a Budrio!

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  6. Marco, sottoscrivo pienamente ogni singola cosa che hai meravigliosamente espresso, come io non avrei nemmeno saputo fare. Per questo ti ringrazio.
    È tutto vero ciò che dici, purtroppo.
    Sono convinto che la nostra solitudine generazionale è dovuta a quell’inesistente cordone ombelicale che non ci ha mai collegato, forse volutamente, a quelli che tu chiami i “nostri padri”. Datemi pure contro, ma questa assenza fa di molti di noi padri di noi stessi. Certo, con le nostre incoscienze, ingenuità, i nostri sbagli e qualche pregio, ma almeno genuinamente veraci. Il solo fatto di volersi confrontare, parlandosi, credo sia indice di aria nuova.
    Nonostante tutto sbattiamo contro i soliti muri, le solite frasi di circostanza. La politica non ci parla, non ci ascolta. Semplicemente ci ignora. Ciò che ci rimane sono le briciole di un sistema logoro e logorato da anni di sevizie culturali e scempi senza senso. Bravi sono stati coloro che vi hanno saputo sguazzare traendone propri profitti. E i risultati sono ben chiari e visibili oggi.
    Credo inoltre che in Italia persone competenti ma anche appassionate, smosse da un sincero sentimento di condivisione, di ricerca, o semplicemente di ASCOLTO ce ne siano ben poche, potremmo addirittura contarle sulle dita di UNA mano, il ché nel corso degli anni ha reso difficile, ancor di più se vogliamo, il dialogo, il confronto, la reciproca e disincantata voglia di mettersi in gioco, di aprire varchi inusitati. La siccità artistica e creativa che stiamo vivendo nel nostro paese credo sia un esempio unico nel panorama moderno. Un paese artisticamente e storicamente vivo come il nostro vede gradualmente deperire quelle risorse che ne hanno fatto la storia e che potrebbero ancora farla. Ogni barlume di fantasia viene improvvisamente offuscato, censurato, fatto morire sul nascere; a questo proposito a me viene da ridere pensando a chi ancora si prodiga a definire della musica come “non pezzo”, in questo senso le parole di Lanza sono perfette, mi pare piuttosto anacronistico per il periodo attuale definire un prodotto della mente un “non prodotto”.
    Esiste in tutto questo un responsabilità oggettiva di chi ci ha preceduto, la mancanza di parole e gesti adeguati innanzitutto, come chi si nasconde dietro cortine di cemento pur di rifuggire dalle responsabilità, come chi invece anziché dare possibilità a giovani compositori meritevoli di una chance per progredire e imparare preferisce cautelare le proprie amicizie commissionando lavori a compositori già affermati.
    E tutto questo è il paradigma di una cultura, la nostra, che ci vede compiere ciclicamente gli stessi e(o)rrori.
    Si parlava fra noi delle nostre esperienze rapportate all’estero. Faccio l’esempio della Germania, dove il tutto viene fatto funzionare con una coerenza gestionale inappuntabile, innanzitutto il RISPETTO verso la cultura e le nuove generazioni. Personalmente e paradossalmente, da straniero, ho avuto più possibilità di esecuzioni e esperienze artisticamente feconde lì che anche nel resto delle mie avventure all'estero.
    Ma credo sia tutto un fattore di mentalità, a Stoccarda e Berlino facevano i concerti anche negli scantinati, succeduti da dibattiti, birre a go-gò e musica house. L'esperienza del parlare, ecco cosa in primis manca in Italia, non ci si confronta col pubblico, sia esso bobò o addetto ai lavori, o anche semplicemente estraneo, raramente qui qualcuno viene a chiederti informazioni per approfondire la conoscenza di te e di quel che fai. Sempre in Germania, dopo un concerto, un vecchio sugli 80 anni, con taccuino alla mano venne a farmi un sfilza di domande e si annotava le mie risposte, non so per quale motivo, ma mi è sembrata una cosa infinitamente tenera, che un po' mi ha anche turbato e lasciato in me delle tracce indelebili sul mio rapporto con me stesso e quello che produco.

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  7. Ancora…

    I finanziamenti pubblici in Germania sono ben spesi e intelligentemente rivolti all'arte e agli artisti, basti pensare a tutti i progetti di residenza (ben pagati) che esistono, e trovare fondi per un concerto o una manifestazione non è poi una cosa così proibitiva e utopica come in Italia.
    Il tutto gode di grossissima libertà di pensiero, la politica parla alla cultura, e tutto ciò che anima questo è certamente l'entusiasmo. Cosa che forse molti hanno dimenticato.
    Si parla dei nostri padri, e si è citato Berio, Maderna e Donatoni. Credo vi sia stato un buco temporale che ha attraversato una generazione, che ha preferito globalizzarsi sul concetto di "élite della musica contemporanea". Se ci pensate bene ai tempi di Nono, Berio e Maderna la parola élite non esisteva nemmeno, allora si parlava di avanguardia; oggi gli "avanguardisti" sono quelli che fanno emettere rutti agli strumenti, stilando addirittura manifesti e proclami di sorta, il tutto col beneplacito delle istituzioni e noi tutti quasi compiacenti di questo. Ma se davvero qualcosa vogliamo cambiare ora è il momento, controvento e in salita, ma ora. È nostra responsabilità. Per la musica. Per noi. Per le generazioni a venire.

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  8. Apprezzo moltissimo il post. Proprio per questi motivi mi sembrano importanti il vostro lavoro e questo blog, per allargare gli orizzonti creando comunità che travalichino le cerchie ristrette degli addetti ai lavori, anche attraverso luoghi aperti di scambio culturale, dibattiti, nuovi spazi sociali, magari fluidi, con scambi anche accesi, ma necessari per la germinazione, ma soprattutto per la diffusione e la proliferazione delle idee, utili per coloro che producono, ma anche per coloro che ascoltano.

    Da studente/ioso di storia della musica, però, tendo ad attribuire ai vostri padri meno responsabilità di quanto non facciate voi: sia per quanto concerne le specificità italiane, sia quelle internazionali. Posso benissimo sbagliarmi, ma vedo alla base della nostra specificità culturale almeno quattro radici: l'eredità fascista, per cui gli unici lavori veri sono da una parte la fatica, zappare la terra, e dall'altra il comando; l'eredità accademica italiana di stampo letterario, ancora oggi percepibile, per cui si può studiare solo il concetto, e, quindi, la musica è troppo "astratta"; l'ignoranza diffusa, specialmente quella musicale; e, infine, il fatto che l'Italia sia oramai in tutto e per tutto un paese "periferico", che assimila con ritardi di anni le tendenze culturali che importa dall'esterno, incapace di elaborare specificità proprie attraverso dibattiti culturali in luoghi creativi nel contempo attivi, diffusi e avanzati.

    Inoltre, ho sempre immaginato il fenomeno di chiusura in sé della musica non tanto come un problema linguistico, quanto causato da un cambiamento radicale del ruolo della cultura all'interno della società, avvenuto intorno al/a partire dal 1980, di cui le elezioni della Thatcher e di Reagan tra 1979 e 1980 sono un simbolo: queste, a mio parere, segnalano un forte mutamento di paradigma. La cultura, fino agli anni Settanta, ha svolto un ruolo fondamentale, momento imprescindibile di riflessione sull'uomo e sulla società, costante "critica" di queste e, insieme, di se stessa, anche perché l'Europa era appena uscita da una crisi in cui una cultura insieme "alta", raffinata e affermativa aveva portato alla distruzione e all'abisso. Inoltre, l'irruzione dei movimenti giovanili ha dato nuove scintille, nuova linfa, sia per la diffusione, che per la germinazione di nuove idee. Però, l'establishment culturale non ha saputo ridisegnarsi un ruolo in una società che dal 1980 ha iniziato esplicitamente a negarglielo, richiudendosi in una riserva indiana. Non per sua volontà, ma perché lì è stata rinchiusa e, sebbene i compositori abbiano sempre mostrato di voler uscire da tale riserva, ognuno in forme diverse, di fatto non ne sono stati capaci. Questo forse perché troppo sforzo è stato riservato alla questione linguistica e poco alle forme del suo stesso porsi nel mondo, anche se in realtà dubito che dipenda davvero da loro. Proprio per questo, però, mi interessa molto la vostra iniziativa, come tentativo di reinventarsi un ruolo e mettersi in discussione, scoprire nuovi spazi, anche sociali, del far musica.

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  9. Caro Giacomo, grazie per il tuo intervento. La tua analisi impietosa delle ragioni della paralisi culturale italiana mi convince completamente. Sono leggermente meno d'accordo sulla tua non-attribuzione di responsabilità. Voglio fare, o meglio ribadire, una precisazione: non credo che ci sia stato dolo da parte dei nostri "padri". È chiaro che si sono ritrovati nel mezzo di un mutamento molto più grande di loro, e non hanno saputo rapportarvisi. Non voglio neanche dire che noi, al loro posto, ne saremmo stati capaci: non lo credo. I tempi erano diversi e come mi ha detto una volta Paolo Aralla, oggi cinquantenne, "quando avevamo la vostra età c'era ancora un po' di torta da dividerci, e su di essa ci siamo fatti la guerra": siamo sicuri che noi al posto loro non avremmo fatto lo stesso?

    Questo non toglie però che oggi sia vitale un momento di riflessione, e anche di individuazione di responsabilità. Non un processo, per carità, nessuno viene messo alla sbarra. Ma una lettura accurata degli errori di chi ci ha preceduti, per cercare di non ripeterli e forse, ambiziosamente, di porvi qualche rimedio. E magari, perché è inevitabile e in fondo anche sano, un grido di rabbia non contro le singole persone, per le quali come Marco giustamente rimarcava abbiamo stima e affetto, ma più astrattamente e generalmente contro un contesto, una temperie, un sistema di cui tutti, giovani o no, oggi siamo vittime. Tutto ciò non vuole minimamente negare quanto (ed è tanto) di buono è stato fatto prima che noi ci affacciassimo sulla scena: musica bellissima, ricerca, pensiero, una straordinaria qualità dell'insegnamento. Queste cose le riconosciamo tutti e continueremo a riconoscerle.

    Però mi sembra innegabile che ci siano state scelte personali, politiche (nel senso più ampio possibile) e anche puramente musicali le cui conseguenze sono sotto i nostri occhi: "niente guerre e niente pane". Altrimenti, e sarebbe peggio, dovremmo dire che i nostri maestri sono stati solo banderuole squassate dal vento, e che non ci sono state scelte perché la strada era segnata e scelte non se ne potevano fare.

    … e comunque, g-g-g! ;)

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  10. Caro Marco, cari tutti, che bello e difficile post! Quasi un manifesto generazionale. La lucidità e la prospettiva sono tali che non posso fare che sottoscriverlo in tutte le sue parti, sia dal punto di vista intellettuale, sia nella pratica della quotidianità.

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  11. Cari tutti, grazie mille per le vostre parole. In realtà non ho molto altro da aggiungere ai vostri commenti che, in realtà, aiutano me stesso a focalizzare meglio il senso delle mie parole. Ci tengo solamente a ringraziare i nuthinghiani del prezioso aiuto nella fase di redazione di questo piccolo (e per me un po' scomodo) post, in particolare Andrea Agostini, Eric Maestri e Daniele Ghisi. Mi piace poi citare un paio di passi di un commento di Andrea Agostini che trovo formidabile:
    "Non credo che ci sia stato dolo da parte dei nostri "padri". È chiaro che si sono ritrovati nel mezzo di un mutamento molto più grande di loro, e non hanno saputo rapportarvisi. Non voglio neanche dire che noi, al loro posto, ne saremmo stati capaci: non lo credo. Tutto ciò non vuole minimamente negare quanto (ed è tanto) di buono è stato fatto prima che noi ci affacciassimo sulla scena: musica bellissima, ricerca, pensiero, una straordinaria qualità dell'insegnamento. Queste cose le riconosciamo tutti e continueremo a riconoscerle... Però mi sembra innegabile che ci siano state scelte personali, politiche (nel senso più ampio possibile) e anche puramente musicali le cui conseguenze sono sotto i nostri occhi: "niente guerre e niente pane". Grazie Andrea e grazie a tutti.

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  12. > Abbiamo bisogno di segnali, diteci dove sono i problemi e cerchiamo di fare fronte comune

    Credo che l'elefante nella stanza sia che la musica fatta da questi fatidici 30enni faccia un po' cagare. Mancano figure alla Nico Muhly che sono interessanti e non mancano di un certo appeal pop.

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