lunedì 10 dicembre 2012

Vivos Voco

Pochi giorni fa è morto Jonathan Harvey, cui in questo blog non abbiamo mai accennato se non superficialmente. L'occasione è triste per colmare questa lacuna. Non mi interessa in questo contesto dare uno sguardo sulla sua vita, sulla sua formazione, sulla sua spiccata spiritualità o sui suoi rapporti con altri mostri sacri (primo tra tutti Stockhausen); nemmeno mi interessa darvi una panoramica sui suoi lavori più importanti – potete trovare tutto questo su questo bell'articolo del Guardian. In breve, questo non sarà un post strettamente commemorativo, né vi spiegherà perché Harvey è stato fondamentale nei decenni passati. Servirà forse invece a cercare di capire perché Harvey sarà fondamentale nei decenni a venire. Mi interessa quindi esporre brevemente le ragioni per cui credo che Harvey, attraverso la sua musica, mi abbia insegnato qualcosa.

Il primo degli insegnamenti che mi lascia è di sottomettere sempre la tecnica all'estetica. La tecnica è un moltiplicatore, un binocolo meraviglioso ma perfettamente inutile senza l'abilità di puntarlo verso l'alto, verso le domande fondamentali, verso le questioni interessanti. Tre aspetti sono cruciali: un approccio laico (!), contemporaneamente incantato e disincantato, alle tecnologie; la rivendicazione della scelta di interessarsi o di fregarsene (ambedue legittime e salutari); la capacità di perseguire obiettivi semplici, senza che le tecnologie intervengano per complicarli, e in ogni caso cercare con lo sguardo la semplicità in tutto ciò che viene dato o generato come informazione complessa.

Un altro insegnamento che mi lascia è che il tempo deve essere la fibra della musica, non la ragnatela in cui la scrittura è imprigionata. I capolavori di Harvey sono opere il cui tempo si interfaccia con l'integralità dei tempi, e per tale ragione sono spiccatamente atemporali in una prospettiva molto ampia. Sino a casi clamorosi, come Mortuos Plango Vivos Voco, che rimane il più bel brano elettroacustico che io conosca (davvero quasi perfetto, al netto di una veniale esuberanza centrale); sicuramente uno dei pochissimi brani che non suonano connotati e imprigionati in un periodo, in un sound, in una tecnica. Lo riascolto ora, e mi pare monumentale nei suoi piccoli 9 minuti. Siamo nel 1980, e stento ancora a crederlo: perché la maggior parte della musica elettronica di quel periodo ascoltata oggi suona "anni Settanta" (nella migliore delle ipotesi…)?

Harvey è un caso rarissimo nel panorama contemporaneo. È riuscito a conciliare il fortissimo attaccamento alla tradizione con un desiderio magnetico di osservare la luna, e con tutta la fatica che ciò implica. È riuscito a perseguire desideri quasi universali (come il sogno largamente condiviso di far "parlare" un'orchestra) con la gestione disincantata dei mezzi tecnici che aiutano a perseguirli. (Detto tra parentesi, sono le persone come lui – e non ce ne sono tantissime – il vero combustibile delle istituzioni che li ospitano e li sostengono.)

Quello che per Harvey rappresentava la spiritualità, per me (per tutti noi, credo), è l'utopia. È ciò che ci obbliga a non separare mai completamente la musica dalla vita (per quanto crudele e difficile possa essere), perché sostanzialmente parlano della stessa cosa. È un magnetismo irrefrenabile che ci costringe a mantenere lo sguardo sempre verso ciò che è lontano, verso ciò che è fuori dalla nostra portata.

3 commenti:

  1. Caro Daniele, ti ringrazio per aver scritto di Jonathan Harvey.

    I punti che hai evidenziato sono molto centrati, e se mi permetto di risponderti, è semplicemente per condividere di rimando un paio delle cose che io percepisco come fondamentali nella sua musica.

    Una musica che si orienta coscientemente verso la Bellezza, senza cadere nel disimpegno, o nella faciloneria.
    Questo perché è espressione di sincerità assoluta.
    Una musica che, nella diversità dei risultati, si concede a tratti di essere ingenua, e mai ideologica.
    Ed infatti una delle caratteristiche che ammiro nei suoi pezzi più alti è la capacità di superare con un colpo d'ala molte delle aporie della "musica contemporanea" per arrivare alla purezza, a quel luogo dove l'emozione e l'intelligenza non sono separate.
    ("And the Fire and the Rose are one".)
    Giacché di intelligenza parliamo quando parliamo dell'ascendere, e in ciò che tu giustamente chiami la sua spiritualità io ho sempre visto la capacità di non smettere mai di riservare uno spazio prioritario ad una visuale ulteriore, più comprensiva, e mai definitiva.
    Ho intuito poco a poco il senso dello "svuotarsi" di cui parlava spesso, e che un po' mi spaventava.
    Il quale non era attrazione per il vuoto, bensì per l'ignoto.
    E se posso evidenziare una delle dimensioni della sua musica totalmente in assonanza con la mia poetica, questa è la capacità – nel migliore dei casi – di fare apparire un luogo "altro", la cui bellezza è racchiusa nel mistero di non essere senza relazioni con l'esperienza quotidiana (io direi "diurna"), ma di esserne tuttavia lontanissimo, e largamente indipendente. Di modo che l'esperienza diurna stessa ne sia toccata, e voglia modificarsi, e tendersi.
    Oppure, espresso altrimenti: che nei suoi momenti più alti la sua musica si in-formi ad un'immagine mentale superiore, e questa ci trasmetta, essendo i suoni specifici che impiega a questo fine un mero accidente.
    Starei per dire, quasi perdonabile.
    Allora: proprio questa capacità della sua musica di farsi "attrarre" è tra le cose per me più importanti; e mi rimanda a una nostra precedente conversazione fiorentina sull'ispirazione, sul "contenuto" della musica.

    (Oltre ai due pezzi che giustamente citi, io aggiungerei alla lista dei suoi lavori per me ineludibili almeno il Secondo e il Quarto Quartetto per archi, e "Wheel of emptiness", nei quali si esprime nella sua chiarezza massima, e "non somiglia a nessun altro".)

    Sono d'accordo quando parli della non separazione della musica dalla vita.
    Qui sfiori uno dei punti più delicati ed inesprimibili, e che però fan parte della grandezza e dell'umanità di questo artista.

    Un abbraccio,


    Stefano

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  2. Caro Stefano,

    grazie di cuore a te per la condivisione di queste tue acute osservazioni, a me e a tutti i lettori del blog. Mi piace la rappresentazione dello iato tra musica e vita come discrimine tra un regime diurno e un regime notturno. In Harvey questa relazione è molto netta, sempre – non mi viene in mente davvero nessuna eccezione. (Ma, per il resto, Bach è diurno o notturno? E Brahms? Come molte ottime chiavi di lettura, forse anche questa è solo parziale. Ma nel caso di Harvey è particolarmente significativa.)

    Hai anche ragione su tutti i pezzi che hai citato, e che io ho omesso nel post – omissione che aveva il solo scopo di evitare un elenco dei memorabilia. Nel caso di Harvey, tra l'altro, stento a trovare un pezzo "brutto" (davvero non me ne ricordo, ma la memoria non è in generale il mio forte).

    Condivido soprattutto il passaggio in cui dici che la musica di Harvey si concede a tratti di essere ingenua, ma mai ideologica. È una frase bellissima, che sottoscrivo, e che avrei sicuramente aggiunto nel post se avessi visto subito le cose così lucidamente.

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  3. Hai ragione: naturalmente è una chiave di lettura parziale, ossia parte già di un'interpretazione di base: che è all'origine dell'affinità di cui ti parlavo, ma che altre estetiche possono non includere, o risolvere diversamente.
    Quanto a questo anzi, è proprio uno di quei punti in cui a guardare bene, assi e dimensioni supplementari sembrano volersi moltiplicare senza fine. 
    (Peraltro, mi fa ricordare un acuminato distinguo anti-psicanalitico di Elemire Zolla, in cui faceva notare che non tutto ciò che è inconscio è sub-conscio: esiste anche il sopra-conscio. 
    O il pre-conscio, io aggiungerei volentieri.) 
    Geografie dell'ignoto.
    Credo che l'unica cosa indubitabile è che una certa separazione – dovuta al peso della materia – ci sia (è da qui che nascono gli angeli); rispetto ad essa le differenti posizioni, come sempre, fanno la bellezza dell'Arte.

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