lunedì 30 luglio 2012

Emanuele Casale - Buongiorno stanza audace


Tempo fa, su queste stesse pagine, si parlava di “scavare”.
Scavare per me vuol dire cercare, modellare, impregnarsi, annullarsi e ricrearsi ogni istante dedicato alla “creazione”. Anelare a quel che non si conosce. Immaginare il nero per (ri)colorarlo lentamente.

Prosciugarsi. Perdersi. Rifiorire.

Questo processo è un loop continuo. È insito nella vita di un compositore, o di un qualsiasi creatore. È una evoluzione naturale che ci porta da uno stato vegetativo all’altro. Ci distrugge e ci ricrea. E l’ordine è dettato dal suono. “L’ordine del fenomeno sonoro è primordiale: vivere quest’ordine è l’essenza stessa della musica”, lo diceva Boulez.
Credo che vivere quell'ordine sia innanzitutto un viaggio. Un continuo errare attraverso luoghi offuscati, incapsulati in una dimensione parallela, come in un treno. Dove tutti gli elementi ci scorrono rapidamente davanti, come in uno schermo, ad un ritmo disumano ed una velocità inafferrabile. 
E' solo grazie alla nostra percezione che riusciamo a cogliere quante più informazioni possibili.

Certe volte invece si va alla cieca. Le zone d'ombra, i luoghi offuscati, appaiono solo neri. Si gioca d'intuito. Io stesso dico sempre che quando compongo scrivo quello che non conosco.

Emanuele Casale è uno di quei compositori la cui musica appare immediatamente "lucida", determinata da elementi che fin dal primo ascolto lasciano dei residui estremamente forti da smaltire. Restano dentro come schegge. La sua musica, come tutte quelle “scavate” non si metabolizza in fretta, ma destano quesiti, dubbi. E molte di quelle schegge rimangono conficcate.
Il brano qui proposto è “Buongiorno Stanza Audace” per grande orchestra. Composizione che risale al 2010, commissionato dalla Biennale di Venezia, fu eseguito dall’Orchestra Mitteleuropa con Andrea Pestalozza sul podio. La registrazione presente su Youtube è quella della prima esecuzione.

Ciò che colpisce e incuriosisce immediatamente è quel gusto (o retrogusto) per certe armonie diatoniche che già dall’inizio, dopo un tutti orchestrale che accenna ad un attacco fortemente figurale, catturano l’orecchio. Ecco, l’udito qui tende, anzi si protende. Il tempo s’annulla.
Degli accordi striscianti affidati agli archi rimangono lì in alto, sospesi. Densi.
I movimenti sono estremamente lenti, quasi pesanti, scivolano e si incastonano l’un l’altro. Alcuni fremiti appaiono quasi d’improvviso. Accenni di un tutti orchestrale reminiscente del principio. Un marchio di fabbrica che ricorrerà spesso durante tutto l’arco del pezzo.
L’orchestrazione è raffinata, piena di spunti personali. La massa non è solo unità di corpi, è pensiero. L’impasto timbrico non è solo colore, è fusione equilibrata.
Non a caso ho scelto un brano orchestrale, credo che sia il primo che si propone su questo blog da quando abbiamo iniziato. Già, l’orchestra, il grande “mostro”. L'impatto col sinfonismo è spesso devastante. Gestire la grande massa, modellarla secondo il proprio pensiero e secondo le proprie attitudini, è un lavoro arduo.
Uno dei principali problemi é sicuramente il timore di "cadere" in gestualità sonore estremamente accademiche, o comunque che richiamino impasti, movenze timbriche, gestioni armoniche "già sentite".
Di fatti, lo stesso autore, nelle sue note introduttive al pezzo, parla di "cercare di abbandonare paure della propria educazione musicale: timori della consonanza, della ripetizione, delle figure sonore 'esplicite' sotto il profilo estetico...".
Come compositore mi sento molto vicino a questo tipo di approccio tecnico ed estetico. Tutti noi, nel bene o nel male, viaggiamo con un peso ed un timore continuo: il rapporto col passato.
In questo lavoro mi sembra che Casale cerchi, attraverso lenti disegni e una "marmorea" gestione del tempo, di fuggire, o forse di eludere, allargandosi sempre di più, questo vincolo col passato, che pur ritorna in un certo utilizzo di strati tonali e ritmici sovrapposti, amalgamati sapientemente con un "delicato flusso di lenti grovigli". Una texture decisamente accattivante.
Anche l'approccio formale mi pare molto interessante, una lunga linea curva, con un sviluppo costante del materiale e una sorta di micro-sezioni interne che sono spesso scandite da ritorni gestuali piuttosto marcati per poi scivolare pacatamente verso risonanze sempre più lontane.
Come si diceva per Murat vale anche per Emanuele Casale, decisamente un compositore da seguire con attenzione.

9 commenti:

  1. Bello il post Raffaele. Devo ascoltarmi con calma il pezzo... (tbc)

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  2. Bel post Raffaele, conosco meglio le opere più giovani di Casale, che trovo impressionanti; se è vero che con un compositore così si va sul sicuro, tu ci hai sottoposto una partitura nella quale si sente un confronto diverso dello stesso con l'eredità dei maestri che lo hanno ispirato. Il lavoro mi piace molto, c'è una sorta di abbandono alla massa che mi suona come una rinuncia ai "trucchi" d'orchestrazione che tendono a piegare il mezzo piuttosto che ad assumerlo; un equilibrio tra respiro e fremito gestito in maniera sottile e sicura, notevole...

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  3. Ottimo post Raffaele. Peraltro ascoltai il pezzo dal vivo, quando venne eseguito alla prima a Venezia. Anche ora che l'ho riascoltato, come allora, mi colpisce per gli squarci luminosi che apre - e non mi riferisco solo agli episodi più energici che offre all'ascolto. Secondo me - ma non ne sono sicuro, non ho la partitura - emerge una biforcazione fra due mondi, uno più "figurale", fatto di frammenti roteanti, di esplosioni, e uno di "decantazione", dove le acque si acquietano, i flussi si allontanano. E il pezzo assume la forma di uno sguardo che mira nelle due direzioni. Ma non so dirti quale prediliga - o forse non ne predilige nessuna, ce le lascia contemplare entrambe. Forse non è nemmeno giusto chiedersi se esista una direzione privilegiata, o se al contrario l'osservatore è bilocabile... Secondo me è un pezzo da "masticare" con lentezza, e per questo sento la necessità di riascoltarlo. L'altro punto - e qui si apre una discussione che ho sempre sentito dagli amici / colleghi - è appunto la questione "il peso del passato". Ti / mi / ci chied(iam)o: è davvero un gravame così difficile da spostare? Oppure riusciamo a trovare - quando scriviamo - le leve che ci permettono di affrontarlo, sollevarlo o respingerlo? Non ho risposte, ma mi piacerebbe sentire che ne pensate. Ancora grazie per questa scoperta. (tbc - che significa "to be continued", credo ;)

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  4. Ciao. Sto ascoltando il pezzo. La temporalità mi piace. La scrittura permette di immergersi nel colore dell'orchestra, come dici, senza fare finta. E'molto chiaro quello che succede, con due piani che camminano in parallelo. A un certo punto però la magia sparisce e rimane qualcosa di pastorale che mi lascia perplesso. A tratti l'orchestrazione è magica, anche se manca del contrasto, trovo ma è personale. C'è tanto Debussy e Mahler orchestratore nel pezzo. E in questo c'è un rapporto diretto e franco con la tradizione, che non è proprio un peso, piuttosto una bagaglio che può essere pesante se non lo si frequenta abbastanza... (tbc)

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  5. @Andrea Sarto
    Mi piace la tua visione sul pezzo. In effetti credo anche io che il brano viva di mondi paralleli, distanti e a tratti convergenti, dove flussi temporali, figurazioni e materia sonora decentrano continuamente l'attenzione dell'ascoltatore.
    E sono d'accordo che sia un pezzo che va metabolizzato lentamente, ha bisogno di più ascolti. Di respiri, di spazi.

    Rispondo (anzi ci provo) alla domanda che mi/ci hai posto, sperando che anche gli altri intervengano.

    Il rapporto col passato è sempre delicato. Io credo che tutti noi, nel bene o nel male, cerchiamo quella "leva" che ci permetta di aprire finalmente quel ponte levatoio che possa schiuderci le porte del castello "tutto nostro".
    Ma per me così non è.
    Quello che conosco, che ho imparato, che ho assimilato in anni di studio e di esperienze, inevitabilmente ritorna.
    Si insinua come un'anguilla nella mia scrittura, nei miei pensieri, nel mio quotidiano vivere.
    Esiste un modo per slegarci da quello che siamo e che abbiamo vissuto?
    O meglio (o peggio), bisogna necessariamente farlo?

    E forse dirò una cosa "scomoda", ma spesso tutti (probabilmente non tutti) noi compositori cerchiamo un "luogo" che rappresenti casa, un posto dove sentirsi al sicuro. Dove specchiarsi non fa poi così male.
    Il problema è proprio qui, è che spesso ci si accontenta di "apparire", di sembrare belli a prima vista.
    Scopo della nostra generazione dev'essere di rompere quello specchio, non col passato.

    @Eric, potresti spiegarmi questa cosa del "pastorale" che ti lascia perplesso?

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  6. @Raf ma anche @Eric. Una parola che tu, Raffaele hai riportato e che mi colpisce è "casa". E per quanto riguarda Eric è "frequenta(re)". Secondo me dipende tanto dal rapporto che hai con quello che conosci, e che ormai fa parte di te, della tua storia, della tua formazione. Sono convinto che "il passato storico" è in noi, non all'esterno. Nella misura in cui abbiamo confidenza con esso possiamo, se vogliamo, continuare quel rapporto, scrivendolo con le note. Pensa al lavoro che ha fatto Bartòk - un compositore che ultimamente mi è molto caro e che ho riscoperto volentieri. La sua musica attinge dalla storia, che gli scorre nelle vene. Questo non vuol dire che il rapporto sia sempre facile. Anche io litigo con coloro con cui vivo, i muri della casa portano delle crepe, forse parte del soffitto è crollato, e sotto la finestra stiamo verniciando il termosifone. (Ecco, forse casa mia è così) ;)

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  7. Ciao. Scondo me è pastorale a 3 e 40 e a 4 e 40 per 30 secondi!

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  8. Ehila. Secondo me il pezzo è bello ma prevale troppo il mestiere detto classico. C'è una bella immersione nel tema e nell'idea del continuo o del flusso. Ok, bello e funziona. Però ci sono limiti armonici al discorso, che resta diatonico invece magari di prendere più sul serio il suono lungo spettrale per esempio. Mi chiedo quale scelta ci sia sotto. L'idea di sfondo e figura che prevale nel pezzo mi lascia un pò interdetto, e forse mi annoia un pò a un certo punto.

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  9. Grazie per il post e per i commenti. Rispondo a Maestri.

    L'aggettivo “pastorale”, che mi pare desueto, andrebbe forse sostituito con qualche altro termine più attuale e, comunque sia, non avrebbe per me implicazioni negative.

    Se il termine “classico” è inteso come agganciamento a qualche tradizione musicale, direi che oggi potrebbero suonare più “tradizionali” certi brani concettuali o Lachenmann-style anziché composizioni con impostazione “classica", diciamo così. Al di là di ciò, tutto questo (e altro ancora) non ha grande importanza per me.

    Non restare “diatonico” e prendere un “discorso lungo spettrale” non deve essere necessariamente l'obiettivo del brano, infatti non lo è stato.

    Ho scritto diversi brani con orchestrazioni che generano evidenti contrasti timbrici, qui ho invece esaltato l’omogeneità di certi colori: mistura anziché separazione; ho lavorato appositamente per questo scopo. Un’altra concezione dell’orchestrazione avrebbe generato un altro brano.

    Con i migliori saluti

    Emanuele Casale

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