mercoledì 21 marzo 2012

Steen-Andersen - On And Off And To And Fro



Continuiamo la serie dei “semafori verdi” parlando questa volta di un autore della nuova generazione fra i più interessanti sul panorama internazionale, ma poco conosciuto, anzi molto probabilmente del tutto sconosciuto in ambito italiano, aldilà di qualche piccola recente apparizione.
Si tratta di Simon Steen-Andersen (classe 1976), compositore danese,  piuttosto attivo in territorio anglo-germanico.
Il brano qui presentato è “On And Off And To And Fro” del 2008, nell’esecuzione dell’ensemble norvegese “Asamisimasa” e inserita nel disco monografico “Pretty Sound - Solo and chamber works” pubblicato dalla Dacapo Records nel gennaio 2011.
I lavori di Steen-Andersen appaiono ad un primo ascolto brillanti, comunicativi ma al contempo densi di sonorità ricercate, molto spesso grazie anche all’ausilio dell’elettronica o a dispositivi particolari quali megafoni o pedaliere per chitarra, ponendo in evidenza anche una certa curiosità verso l’aspetto visuale, prevalentemente di carattere ludico e ironico. Il gesto sonoro è inteso molto spesso come atto performativo, determinato perlopiù da un’intimistica propensione teatrale.

Armonicamente la musica di Steen-Andersen si muove su un terreno fragile, sorretto da un’immaginazione musicale “liquida”, capace però a tratti di giungere ad ambienti sonori simili alla electro-music, o addirittura al pop.  
Il sincretismo acustico sul quale egli lavora, apre ad una riflessione sul  passo che molti compositori degli ultimi anni hanno attuato in vari ambiti musicali (…chiamatelo pure “crossover”, penso spesso al buon vecchio Frank Zappa, o più recentemente a Brian Eno, o ancora ai Radiohead, oltre a tante altre forme di sound-art) contribuendo così ad un rinnovamento, ad una inaspettata freschezza che potrebbe ancor più fungere da propulsore per gran parte della “neue musik”.
L’aspetto interessante che demarca la verve musicale di questo autore ritengo scaturisca non solo dalla commistione sonoro-concettuale che non rinuncia al bel suono pur tentando un approccio timbrico basato sulla ricerca di “suoni nuovi”, che sfiora delle complesse elaborazioni elettroniche, che ingloba dei “noise-moment”, che si esprime attraverso il gesto visuale ma che, cosa non da poco,  “tocca” il pubblico nelle esecuzioni dal vivo, pur elaborando una eterogenea rete di gesti e figure incastonate nella partitura come brandelli di un mosaico.  Cosa che ho avuto modo di apprezzare dal vivo assistendo ad alcune esecuzioni di suoi lavori durante i ferienkurse di Darmstadt del 2010, oltre che ad una rassegna di concerti tenutisi a Stoccarda.
Strutturalmente gran parte dei suoi brani hanno una tendenza che porta verso un equilibrio formale molto interessante, bilanciato soprattutto grazie ad una sorta di “mancanza di eccessi",  che invece impera in una certa parte della musica di oggi e dei recenti anni, ritengo che la ricercatezza e l’immediatezza del suo pensiero compositivo “passa” fortemente grazie anche alla nitida impostazione  della forma.

Nel pezzo qui proposto siamo di fronte ad un impianto compositivo decisamente figurale caratterizzato da un’indole coloristicamente vivace.
“On And Off And To And Fro” è formalmente diviso in due parti: “On and Off” e “To and fro”, l’organico è formato da Sax soprano, Vibrafono, Contrabasso e tre strumentisti muniti di megafono.
La prima parte (in trio assoluto sax, vibr, cb.) consiste in una serie piccole figurazioni ossessivamente ripetute e sovrapposte, con delle fittissime brevi soluzioni ritmiche. Sullo sfondo gradualmente prendono corpo dei leggeri respiri prodotti dai megafoni, che gradualmente aumentano di consistenza, e da artifici “d’accompagnamento” si tramutano in veri e propri elementi strutturali, reagendo veementemente con suoni distorti e rumorini di feedback amplificati, giungendo a prendere totalmente la scena e sfociare in una sorta di cadenza acustica composta da un contrappunto di fonemi che diventano vere e proprie sirene.
I tre strumenti principali sembrano qui essere momentaneamente scomparsi, per poi riapparire progressivamente con degli interventi sonori simili ai respiri che nella prima parte erano stati affidati ai megafoni. Vi è quindi una fusione di intenti e di idee che si fondono l’un l’altra, per poi uscire ognuna dal proprio involucro, e a sua volta ritornarvi, ciclicamente ed inesorabilmente.
L’intero  brano risulta fragile, chiaro, sospeso. Il disegno formale è perfettamente percepibile, così come anche l’idea concettuale di base.

Come già accennato Steen-Andersen sembra lavorare accuratamente sulla drammaturgia del gesto,  in maniera tale che risulti avere un impatto determinante, fortemente comunicativo, un’alchimia impalpabile di interdipendenze fra suono e invenzione scenica, frequentemente abbinata alla ricerca di nuovi timbri e/o effetti, al punto che si potrebbe parlare di “anti-azione” e “anti-suono”, termini questi coniati da  Henrik Friis nella presentazione al cd.
Secondo le stesse parole dell’autore la sua ricerca acustica è volta a cercare “i moti presenti in ogni suono”.

Per certi versi alcuni pezzi di Steen-Andersen mi ricordano molto da vicino l’habitat ironico-dissacrante di Mauricio Kagel, colui che secondo me ha radicalmente trasformato il concetto di teatro in musica, aprendo dei varchi impensati e impensabili prima del suo operato,  approfondendo non solo tematiche meramente tecniche o estetiche, ma sviscerando scientificamente i rapporti che intercorrono fra creatore, interprete e spettatore, anelando agglomerati sonori che potessero incidere esplicitamente sulla psiche al di là di un qualsivoglia coinvolgimento uditivo, sensibilizzando sia gli interpreti che il pubblico stesso nell'atto creativo-performativo, rendendo quindi ogni interpretazione perennemente nuova, fresca, viva; penso soprattutto a lavori come Anagrama (1957-1958), Mare nostrum (1975)  o ancora Exotica (1976).

Emerge a tal proposito uno spunto di riflessione, ovvero sul rapporto esecuzione dal vivo / registrazione.
La comunicabilità del proprio pensiero giunge in maniera praticamente ridotta se non del tutto azzerata senza la finestrella diretta su quel “teatrino” concepito dall’autore. Come si diceva precedentemente a proposito di Kagel, l’aspetto del coinvolgimento e la reazione del pubblico non è da sottovalutare in quanto lo spettatore stesso concorre a determinare il tempo comune dell’evento artistico, di per sé irripetibile, anche durante le repliche di uno stesso spettacolo.

Oltre all’aspetto esteriore il teatro musicale di Simon Steen-Andersen mi pare modellato anche sul piano spaziale,  ovvero concepito in un luogo mentale, uno “spazio dell’immaginazione”, quello che il linguista russo Vladimir Toporov definì come mitopoiesi, l’azione gestuale del compositore danese vive quindi in uno spazio evocato dalla performance. Un teatro “doppio”, per richiamare un termine caro ad Artaud, dove ogni autentica effige ha un'ombra che costituisce il suo doppione, che stabilisce un legame tra ciò che è e ciò che non è, fra realtà materiale e realtà virtualmente possibile. Rinviene così in superficie  il concetto di simbolo e di archetipo, creando dinanzi agli occhi dello spettatore un universo di emblemi e, come tale, impossibile, indecifrabile, impenetrabile.  A riguardo mi preme sottolineare anche che vedo nella sua musica una serie di gesti e intenzioni nascoste, quasi subliminali, lasciati in un sfondo afono, a mezz’aria, preda soltanto dell’immaginazione di uno spettatore particolarmente attento.


“Si può parlare di tempo teatrale come di un'esperienza transitoria e unica, in cui si incontrano il tempo dell'esecuzione con quello della fruizione.”           (da Insulti al pubblico di Peter Handke)

31 commenti:

  1. A me il brano piace molto. Trovo che sia al contempo fresco e semplice. In più la registrazione è fatta benissimo. (Per inciso, è un altro dei brani che oggi giocano in modo intelligente e teatrale sul concetto di ciclo, e il modo mai banale in cui lo tratta mi piace molto.)
    Tra l'altro per chi volesse la partitura, la si può vedere online qui.

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  2. Il brano è molto divertente. Un cosa mi fa pensare: quanto siamo indietro in Italia!! Con i nostri diplomoni! Da noi siamo ancora ai giochini postseriali e si sente poca musica che propone una qualche sintesi e un punto di vista semplicemente personale. A quando un rinnovamento? Saremo obbligati a farcelo da soli... Il tuo post Raffaele è illuminante e profondo e ci da una prospettiva su questo lavoro che dialoga molto con tutto ciò che è intorno. Io l'ho sentito dal vivo e non ha, personalemente, lo stesso impatto che in cassa. Questione! Cì sono sempre di più pezzi che funzionano da dio in disco e molto meno in live (Cendo per esempio, questo anche, mi sembra, Romitelli anche ecc...). (to be continued)

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  3. E' vero Eric, hai ragione e uno degli obiettivi del mio post era proprio rivolto al porre in superficie l'aspetto fondamentale del rapporto performance registrata/performance dal vivo. Come tu dici ci sono molti pezzi che in disco rendono molto meglio che dal vivo (sarà che la cultura del ritocchino discografico tipico di certa musica pop ha invaso anche questo campo), o viceversa, come ho scritto nel post.
    Credo che questo problema sia soprattutto palese in certi pezzi che implicano l’uso dell’elettronica in tempo reale, che come tutti sappiamo comporta, oltre ad una serie di problemi (e timori) tecnici anche una qualità sempre diversa della stessa in quanto strettamente correlata alla qualità dell’esecuzione.
    Un altro dei problemi è invece legato a pezzi che implichino l’uso di forme improvvisative e/o teatrali, penso per esempio ad alcuni pezzi di Aperghis (Avis de tempête, Simulacre, Jactations) che dal vivo avvolgono letteralmente lo spettatore lasciandolo meravigliosamente esterrefatto, ma che in registrazione non sortiscono lo stesso effetto, anzi appaiono forse addirittura “ridotti” di significato.

    @Daniele ottima idea aver postato la partitura, grazie!

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  4. Ciao. è vero. Vale anche il contrario. In Aperghis è assolutamente meglio dal vivo. Ascoltando il pezzo mi dico: siamo arrivati al funky? (sentite filles de kilimanjaro o On the corner di Miles Davis).

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  5. Per me questo brano è l’espressione sonora del movimento browniano.

    Un granello sonoro che si urta contro un altro, e questo scontro determina la sua traiettoria. Ogni granello sonoro si muove così, contro gli altri. E anche il movimento sonoro di una folla, ogni suono é come un individuo che ha il proprio destino nel brano e che esprimendosi con la sua personalità senza preoccuparsi degli altri suoni.

    Insomma, è il movimento della Natura. Questa moltitudine caotica dove si mescolano il regno vegetale (fruscii), animale (respiro), e minerale (tintinnio). Questa giungla dove il silenzio sorge senza ragione e poi dileguarsi nel baccano, e dove l’innazalmento precede o segue la caduta.
    Il brano emana una grande e contagiosa energia vitale.

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  6. Quello che dite apre una grande tematica: la destinazione d'uso di ciò che si scrive, e quanto questo sia un fattore estetico o di linguaggio (scusa, Eric!!). Pensare un pezzo per un disco e pensare un pezzo per una performance non sono la stessa cosa - e questo è una banalità. Ma quanti brani acustici della cosiddetta musica contemporanea sono pensati principalmente per essere registrati? Quasi nessuno (mi vengono in mente solo alcuni esempi elettroacustici). E anche gran parte della musica mista è pensata per il concerto (azzardo: compreso questo pezzo!). Poi qualche volta le cose funzionano così bene che si decide ANCHE di fare un CD, ma è spesso accessorio, quasi "promozionale" (talvolta pure triste), e più raramente, ben riuscito (è il caso di questo pezzo). Nella musica rock o pop si fa spesso il contrario.
    Cage non funziona in CD, e Beethoven sì? (eppure non è che quest'ultimo scrivesse le sinfonie perché fossero incise). C'è qualcosa di intrinseco nella scrittura: Sciarrino inciso funziona un po' meno bene di Lachenmann? (ma forse è solo un'opinione mia? e per giunta sbagliata?) Webern no e Schönberg sì? E' questione di numero di note, di dinamica, di timbro? (ovviamente è anche questione di avere un ingegnere del suono con i controcosiddetti...)
    C'è anche che siamo abituati a sentire musica nelle situazioni più disparate - ricordo un aneddoto di qualcuno che mi raccontava che la prova del nove per sapere se un pezzo funzionava era registrarlo male e ascoltarlo in macchina in autostrada, con tutti i rumori di fondo. Non credo sia sempre così, ma come in tutti gli aneddoti divertenti, forse c'è un qualche fondo di verità. (Con tanti saluti all'autista che, a 120 all'ora, si ostina schiacciare il tasto "Vol+")
    E che valore sociale (residuo) ha oggi la forma "concerto"?

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  7. Merci Clarisse, il tuo commento é molto interessante!

    @Daniele è vero, infatti sollevi un quesito interessante, addirittura vitale oserei dire, perché influisce direttamente sulla fruizione della musica. Io credo che nessuno di noi si pone nei confronti della scrittura pensando a come possa rendere in registrazione, semmai a come possa impattare dal vivo. Che poi, molto spesso si immaginano soluzioni timbriche delicate, particolari, sofisticate …e invece finisce che regolarmente ci si ritrova con sale fornite di acustica scadente, o secca o troppo riverberante, e il tutto finisce perdendosi nel nulla. In un commento al post su Filidei Marco parlava del luogo sollevando la questione su quanto sia importante conoscere lo spazio per il quale si scrive. Verrebbe quasi da chiedersi se sia il caso di pensare di eseguire certa musica solo in luoghi deputati, con acustica necessariamente adeguata. Utopia, credo.

    Mi piace la tua domanda sul porsi l’interrogativo del valore che oggi può assumere il concerto. Per mia esperienza ti posso dire che il concerto assume dei contesti diversi ogni volta dipendendo fortemente dall’organizzazione dello stesso, dal significato che vi si dà, e spesso anche dalla musica che vi si esegue.

    Io penso che il concerto oggi debba assumere il significato di “focolaio”, dove potersi incontrare, ascoltare del “nuovo”, discuterne, avviare idee (detesto la parola progetto) in comune, confrontarsi su diverse problematiche. Parlarsi.
    Mi è successo in Germania di assistere a concerti, che sorprendentemente si tramutavano in veri e propri eventi culturali (forse un po’ come quelli che negli anni ’70 si chiamavano “happening”), avviando prima e/o dopo il concerto degli interessantissimi dibattiti sulle più disparate tematiche, dalla musica, all’attualità o alla politica. E spesso questi concerti non si verificano in convenzionali sale o teatri, ma in spazi impensabili come capannoni, palestre o ex-fabbriche. Ho imparato molto da questi eventi, sento che hanno contribuito ad una mia crescita soprattutto interiore e mi sono reso conto, come diceva anche Eric, che in Italia purtroppo siamo drasticamente rimasti indietro.
    Quindi credo che l’aspetto sociale sia ancora fondamentale per uno sviluppo concreto di qualsiasi evento concertistico…

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  8. Qui si sta toccando una delle mie ossessioni - il rapporto tra musica in concerto, musica registrata e musica tout court.

    Quella che Raffaele chiama "cultura del ritocchino discografico tipico di certa musica pop" mi sembra la presa di coscienza di un potenziale tecnico, ma anche creativo ed espressivo di cui ci si serve dagli anni '60 in ambito pop e non solo - pensa a Glenn Gould… Il lavoro di precisione in fase di editing, mixaggio e montaggio porta nello stereo di casa mia un Professor Bad Trip preciso, visionario e brutale; costruisce le Goldberg perfette, a partire da cento frammenti di cento versioni: c'è, ancora, chi sotto sotto si scandalizza. A me invece sembra meraviglioso...

    [rewind]…creativo ed espressivo di cui ci si serve dagli anni '60, e che proprio in ambito pop ha trovato probabilmente il suo impiego più avanzato: fino a diventare strumento indispensabile per la costruzione della forma e dell'orchestrazione; fino a far diventare il rispetto dei vincoli imposti dagli strumenti tradizionali un anacronismo tecnologico. Loro, quelli che non hanno studiato musica e che piacciono agli adolescenti, lo fanno da cinquant'anni… noi dov'eravamo?

    Faccio un altro passo più in là. Ascolto un'altra canzone molto meno blasonata e che tuttavia adoro, e mi chiedo: mi interessa il fatto che quei mi bemolle e fa forse Madonna, davanti a un pianoforte e senza piccole magie tecnologiche, non li sa veramente cantare (e figuriamoci il si bemolle verso la fine!) (tant'è che se cerco una versione in concerto tutta la baracca è un tono e mezzo sotto, e per giunta parecchio stonatiella) - dicevo, mi interessa? Oggi rispondo che giudico l'opera, non le macchine che le stanno dietro, siano gli algoritmi di pitch shifting dello studio di produzione (ottimi) o l'ugola di Madonna Louise Ciccone (mediocre); che la versione originale in studio e quella in concerto sono due oggetti distinti e diversi, uno buono e uno cattivo: e che no, non mi interessa se la signora Ciccone è stonata e se la registrazione non riproduce la verità della sua emissione. Perché se mi interessasse allora non starei ascoltando la musica, ma la popstar che ha firmato il disco, il virtuosismo di chi l'ha mixato, le acrobazie dei trapezisti del circo. Io scelgo di ascoltare la musica.

    A questo punto si dovrebbe aprire un nuovo discorso - che cosa dice tutto questo discorso al compositore che mi porto dentro? Ma qui ho molti dubbi, qualche fantasia e nessuna risposta…

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  9. Ciao. Anche io come forse tutti non sono turbato dal ritocco o dalla tecnologia usata come editing. Al contrario. Dipende però, come sempre, che mano la usa e come. L'accenno al fatto che mi capita spesso di sentire pezzi in disco fantastici e in concerto un pò meno ( a volte molto meno) è una costatazione, forse dovuta anche solo al fonico che non è capace o non si è messo d'impegno. Per esempio Professor bad trip è spesso deludente dal vivo. Ma forse è il fonico che non è orientato e punzecchiato dal compositore. A volte però capita anche che semplicemente il compositore ha composto in cassa senza troppo capire come sarà in concerto. Succede a tutti, ma a volte succede spesso. Certe cose di Cendo dal vivo non hanno potenza, che forse è la sola cifra della sua musica. Il problema allora è che a volte il compositore non se ne rende conto e scrive un pezzo risentendoselo 500 volte in studio e poi in sala non funziona nello stesso modo. Disco e live sono due fruizioni differenti. Io mi sento più sul live, personalemente, perchè è più diretto e c'è più rischio per tutti. E anche perchè magari genera qualcosa di sociale, come dice Raffaele. Il concerto oggi deve sapere proporre qualcosa, non basta più il concerto in cui si ascoltano i pezzi. Oggi ci sono linee artistiche, fili rossi e tematiche...tutto per un pubblico colto, o meno. Il concerto è roba da intenditori, e forse ben vengano gli intenditori che se la godono.. (scusate per il commento confuso)... (tbc)

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  10. Eric scusa prima ho dimenticato di rispondere al tuo quesito sul funky, io ci vedo sonorità simili all’hard bop… che in effetti si avvicina tanto ad alcuni canoni tipici dell’ambiente sonoro di M. Davis!


    Su quanto diceva Andrea A., io sono assolutamente a favore sul “ritocchino”, in qualsiasi campo musicale può sicuramente giovare a creare un prodotto di alto livello.

    Quello che mi preoccupa è però lo scarto che c’è fra un buon fonico e un buon compositore.
    E da compositore non potrei mai accettare che il mio lavoro possa essere migliorato così semplicisticamente “a tavolino”.

    Il progresso e la ricerca ci hanno e ci stando dando strumenti all’avanguardia in grado di “creare” musica con un clic, è proprio da qui che parte la mia critica verso questo atteggiamento.
    Voglio dire, un buon mixaggio, editing e montaggio di Professor bad trip ne potenzia senza dubbio l’ascolto in cuffia ma ciò non toglie che la grande qualità della musica è stata concepita e creata dal compositore, non dal fonico.
    Le perfette variazioni Goldberg tratte dai cento frammenti rimasterizzati non mi scandalizzano, apprezzo la musica. Ma sinceramente ammiro di più le versioni dal vivo, colte sul momento, che testimoniano la grandezza di un musicista che grazie alle sue capacità d’esecuzione e concentrazione realizza un capolavoro d’interpretazione di una delle più grandi meraviglie della storia musicale.

    Penso che sarai d’accordo con me che il mezzo tecnico mai deve essere confuso col mezzo intellettivo.

    Comprendo gli esempi che hai citato a proposito del pop ma allora ti pongo un’altra ipotesi.
    Prendi un violinista, neanche tanto bravo, che decide di registrare tutti i capricci di Paganini, sonate e partite di Bach, di Corelli, o di altri brani iper-virtuosistici. Li suona male, eppure tramite un clic per magia quelle esecuzioni scadenti diventano prodigiose, perfette, talmente straordinarie che possono essere paragonate a quelle di Salvatore Accardo, a Uto Ughi, a David Oistrakh, e non importa se loro suonassero su uno Stradivari o un Guarnieri del ‘700.
    Bene, dici tu che è la musica quello che conta, certo sono d’accordo, è presente anche se in una esecuzione ritoccata, però…
    in questo modo si pone un problema interpretativo enorme.
    Si indurrebbe alla mediocrità dell’esecutore, alla lascivia, alla negligenza. Non abbiamo noi forse bisogno dei vari Accardo, Pollini, Michelangeli, Gould etc…etc…?
    La musica fa parte del respiro umano, la macchina un congegno che lo può correggere, ma non sostituire.

    Ma la mia non vuole essere una definizione assolutistica e come dici tu forse non c’è risposta a certi quesiti, sono troppi i dubbi, e non c’è morale che tenga. Di ottimi musicisti ne nasceranno ancora, sicuramente, ma di certo saranno sempre di meno quelli disposti al sacrificio, all’eccellenza, se già dalle basi i si pone con un atteggiamento anti-genuino.
    E il crescere in un sistema sempre più proiettato verso una estrema commercializzazione di certo non aiuta.
    E mi mancano quegli anni ’60 che non ho mai conosciuto…

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  11. @Raffaele
    Tu dici che "E da compositore non potrei mai accettare che il mio lavoro possa essere migliorato così semplicisticamente a tavolino."
    Io non posso condividerlo. Non è semplicisticamente, e non è a tavolino, e la proprietà sulle opere è un concetto molto ristretto, all'interno del quale ci sentiamo tutti "a casa", ma all'esterno del quale c'è un mondo per mettersi in discussione e vedere le cose da altre prospettive.

    Strawberry fields funziona bene perché oltre a chi l'ha scritta, c'è gente con i controcosiddetti (leggasi George Martin) che ha avuto un pensiero per portare la canzone al di là del canto e chitarra acustica. Tra l'altro, se non ricordo male, ci sono anche aneddoti sul fatto che la registrazione degli ottoni fosse un tono sopra, e abbiano dovuto abbassarla con nastri e forbici. Se è vero: qualcuno di voi se n'è accorto? Io no. Ed era il 1967.

    Voglio dire - e per certi versi combatto contro me stesso quando lo dico - la proprietà di un brano non è del suo compositore. Perché non accettare di darlo a qualcuno di cui ci si fida, perché se ne appropri, e ci faccia un lavoro? Si chiami George Martin o Pinco Pallino: alla fine possono uscire delle cose di cui rimanere più che soddisfatti! Penso che anche Romitelli sarebbe stato contento di lasciare la sua opera nelle mani di gente che poteva valorizzarla.

    Ma d'altro canto non è questo che più o meno si fa quando si collabora con qualcuno? Un artista video collaborando un compositore gli affida l'opera (o dovrebbe). E nascono anche delle belle cose!

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  12. @Daniele, ho scritto che sono d’accordo sul ritocchino intento alla “valorizzazione” dell’opera non certo su quello che è rivolto allo stravolgimento, intendo applicato senza criterio (e quanti esempi ci sono in giro?).
    Il concetto di proprietà dell’opera è un altro discorso.
    Sono parzialmente concorde sul fatto che un’opera non è di esclusiva proprietà dell’autore, è degli uomini (caro Ludwig avevi ragione!), però personalmente non ne accetterei una visione distorta.

    Quando dici “all'esterno del quale c'è un mondo per mettersi in discussione e vedere le cose da altre prospettive” posso dirti che secondo me questo avviene nel momento in cui al mondo esterno propongo la mia opera così com’è, perché è lì dentro il mio universo, è quello il momento nel quale ci si mette in gioco, dove si fa la propria parte, dove ci si è “donati” al mondo esterno, e in tutto questo non credo di avere la tua visione “libertina” sulla proprietà. Mi piace conservare intatta almeno una parte di quell’universo.
    Poi il percorso che porta alle altre prospettive non è una questione di valorizzazione ma di interpretazione e/o personalizzazione. Non è un processo automatico né simbiotico.

    I Beatles erano geni dalla purezza indiscutibile e avevano il supporto di gente di grande valore come G. Martin, ma ciò che era diverso rispetto ad oggi era l’atteggiamento, scanzonato e allo stesso tempo pioneristico di certe scelte.

    Sicuramente Romitelli sarebbe contento di sapere che la sua opera risulta valorizzata, ma bisognerebbe sempre capire in cosa consiste questa valorizzazione…

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  13. Prima parte:

    Raffaele, non sono d'accordo su quasi niente! ;)

    Prima di tutto, mi sembra che tu stia allegramente confondendo il mezzo e il fine. Dal mio punto di vista il fine è l'opera d'arte, l'artista è il mezzo. Se l'opera è prodotta, invece che da un violinista con dita sottili, lunghi capelli e torbide passioni, da un tecnico in camice bianco... beh, l'opera è l'opera e tanto mi basta! (ok, senza tenere conto dei casi in cui opera e autore si confondono - Cage, Artaud e quant'altri. Ma questa è un'altra storia)

    Poi, non esiste una tecnologia che per magia, con un click, prende un cattivo violinista e lo fa suonare come Oistrakh. Chi riuscisse a prendere una registrazione di una partita di Bach suonata da un dilettante e trasformarla in una grandissima interpretazione (e bada, è un esperimento ideale, non esiste e probabilmente non esisterà mai alcun modo di farlo) sarebbe una persona con una competenza tecnica immensa e altrettanto grandi sensibilità, intelligenza, cultura e immaginazione musicale: e dimmi, queste due qualità non sono le stesse che fanno la differenza tra un grande violinista e uno mediocre? E allora, non sei d'accordo con me sul fatto che il nostro immaginario tecnico sarebbe, di fatto, un grandissimo musicista?

    Terzo, quando dici "da compositore non potrei mai accettare che il mio lavoro possa essere migliorato così semplicisticamente a tavolino", al di là di tutto quello che sottolinea Daniele (e che condivido in toto) aggiungerei che invece lo accetti ogni volta che un tuo pezzo viene suonato, che un interprete sceglie un tempo o una dinamica che non corrispondono esattamente a quello che hai scritto, che per compensare l'acustica di una sala si cambia una sordina o un battente o un armonico, che i pedali del pianoforte vengono alterati se non addirittura stravolti... Poi tu mi dici: questi aggiustamenti non sono fatti a tavolino, sono ben motivati, li ha proposti un interprete che merita la mia fiducia. Tutto vero. Ma perché la stessa pertinenza non può averla un intervento in fase di registrazione o montaggio o mixaggio? Nessuno di noi vuole sentire musica brutta e mal realizzata. Non è di questo che sto parlando. Ogni strumento può essere usato bene o male, che sia un violino o un computer: a me interessa parlare di quando l'uno e l'altro vengono usati bene!

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  14. Seconda parte:

    Per l'ultima considerazione - forse la più importante - mi riallaccio a quello che scrive Eric. La musica di Cendo, dici, funziona meglio in disco che in concerto. Non lo so, non l'ho mai ascoltata in disco ma mi fido del tuo giudizio. C'è però una contraddizione, un problema in questo - non ideologico, molto pratico per quanto mi riguarda: la scrittura di Cendo, come quella di (quasi?) tutti, è intrinsecamente pensata per il concerto e non per il disco. Si muove nell'ambito di tutti i vincoli imposti dal concerto. Per esempio: ho un quartetto d'archi a disposizione, ma voglio un passaggio in cui i violini sono tre? Non posso farlo. Oppure, mi servirebbe a un certo punto un do grave del flauto che sovrasta un fortissimo delle percussioni? Non esiste, non lo potrò mai sentire - e non illudiamoci che il problema si possa risolvere con l'amplificazione, queste cose non possono funzionare. Sono due esempi banali ma, spero, rendono l'idea.
    Allora se la mia musica, scritta rispettando le necessità tecniche di un concerto, funziona su disco e non dal vivo c'è un errore di concezione dell'opera: perché io, compositore, avrei potuto spingermi molto più in là, immaginare molte più cose e molto meglio, se avessi stabilito dall'inizio che stavo scrivendo per un disco e avessi incluso nella mia tavolozza tutti gli strumenti che la tecnologia di registrazione mi offre: eventualmente, includendo nel processo creativo altre persone - musicisti, tecnici e tutto quello che ci sta in mezzo - per poter pensare e utilizzare questi strumenti al meglio: come facevano i Beatles con George Martin. Oppure invece facendo tutto da solo, perché penso di poter controllare, dal punto di vista creativo e tecnico, l'intera catena di produzione: come Brian Wilson dei Beach Boys, in fondo più simile alla nostra figura idealizzata, e un po' bacucca, di compositore.

    E qui poi bisognerebbe cominciare a parlare di che cos'è l'autore, dell'opera collettiva e della nostra stantia e un po' ridicola (romanticheggiante, adolescenziale) ossessione per l'unicità del genio creatore… ma questa è un'altra storia!

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    1. Ciao. Mi hai tolto le parole di bocca. Allora ci sono un sacco di problemi di scrittura in molti di noi e passati. Prendiamo sempre Romitelli. In Professor Bad Trip, o anche in mediterraneo, La sabbia del tempo eccc ha sempre utilizzato il flauto basso in registri impossibili e in cui non si sente per niente. Errore di scrittura per me, e lo si vede guardando la partitura. Sento la registrazione di ictus e il pizz al fluato basso suona grande come un bartok sulla quarta corda di un contrabbasso...bravo il fonico!! ma molto meno Romitelli.

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  15. @Andrea, neanche io sono d’accordo su quasi nulla di quello che hai scritto.

    Non mi sembra di aver “allegramente” confuso il concetto di mezzo e fine, ma piuttosto ritengo di aver chiaramente espresso posizioni diverse.

    Non c’è dubbio che il fine sia l’opera d’arte e il mezzo l’artista, e su questo siamo d’accordo,
    dove invece discordo da te è sul fonico in camice bianco che per me, come sostitutivo di un interprete di qualità, è inaccettabile. A me delle torbide passioni di un violinista capellone e dalle dita affusolate interessa molto poco, quello che mi interessa è il grado di musicale emozionabilità che mi trasmette, quello che per me una “macchina” fino ad oggi non ha mai dato.

    Per quanto dici sul tecnico-genio che possa essere capace con un clic di trasformare un violinista scadente in un prodigio concordo che sarebbe un fenomeno, ma era solo un esempio utopico ed estremo.
    Ma attenzione, se riuscisse a fare quanto detto sarebbe sicuramente un grandissimo tecnico con immensa sensibilità musicale, ma mi sia consentito dire che “grandissimo musicista” è una parola grossa.

    Quando dico "da compositore non potrei mai accettare che il mio lavoro possa essere migliorato così semplicisticamente a tavolino" dico che non accetto ritocchi discografici che siano lontani da quanto scritto in partitura, mentre qui invece mi sembra che sia tu a confondere “allegramente” il concetto di interpretazione con quella di rivisitazione.
    Un buon musicista esegue tempo e dinamiche che hai scritto tu compositore in partitura. Se le cambia a questo punto non è un buon musicista.
    Per problemi di acustica si può cambiare una mazzuola o una sordina, ma bada bene, io su questo non sono così “free”, personalmente raramente accetto di cambiare cose che ho pensato, magari per mesi, per formulare un impasto timbrico che mi interessasse.
    Quindi se si tratta di regolare un problema di acustica in una sola esecuzione avviene dopo esplicite prove, non a tavolino. Ed è qui che noi compositori impariamo e facciamo esperienza, tramite il contatto diretto con gli interpreti.
    Poi, certo che la stessa pertinenza la può avere un buon mixaggio o montaggio, ma precedentemente mi hai fatto esempi legati alla musica pop e a Madonna, che per me sinceramente non reggono, tu stesso mi dici che l’identico brano suonato dal vivo è un tono e mezzo sotto, con un’esecuzione sbiadita e stonata.
    E’ proprio qui che dibatto (sono pur sempre un pianista), come ho già scritto in precedenza l’esecuzione dal vivo è un evento irripetibile e l’interprete il mezzo che consente all’opera d’arte di esserne totalmente fruita e che in certi casi è un tramite diretto tra pubblico e compositore (tra l’altro mi hai citato Artaud che su questo era irremovibile). Per me il computer potrà essere un aggiuntivo, e mai un sostitutivo.

    Poi figurati se a me non interessa parlare di strumenti che vengono usati bene, siano essi un violino o un computer, ma attenzione, non accetto confusioni né identificazioni.
    Un violino è un violino. Un computer è un computer.
    Ma so che su questo saremo eternamente in disaccordo! ;)

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  16. @Andrea
    Lucido ed illuminante. Però due appunti.

    Primo appunto.
    L'esperimento mentale è lucidissimo, ma ha un punto debole: nel tuo esperimento, il tecnico/programmatore/quellochevuoi è "trasparente" all'ascoltatore: se il risultato è così perfetto, ascoltando il risultato nulla ti porta a pensare al tecnico (se non la diffidenza?), semmai a ricreare l'immagine di un violinista. E allora, senza la coscienza di stare ascoltando un grandissimo ”musicista" (o meglio, credendo di stare ascoltando il grandissimo "musicista" sbagliato!), l'esperimento mentale mi pare inutile. Tanto vale dire, semplicemente, che "ascolti la musica e punto".
    E tuttavia - posso sbagliarmi - noto una qualche contraddizione con un altro punto che avevi sollevato e che pur condividevo, cioè che l'ascolto di musica non è mai un ascolto assoluto; e allora ha senso che, ascoltando un violino registrato, effettivamente io immagini un violino, e magari ascolto e realtà possibile si arrivino a confondere, fino eventualmente a cozzare l'una contro l'altro. Il tuo dire "quando ascolto musica, ascolto la musica e punto" lo interpreto più come una sospensione di quella parte di facoltà mentale che lega - e per forza - i suoni le cui sorgenti sono in qualche modo riconoscibili alle loro stesse sorgenti. O forse, più ancora, che estende l'idea di strumento, al netto dal mezzo: la voce non è più la voce che conosciamo live, ma anche ciò che conosciamo filtrato da tutti gli algoritmi di repitching e quant'altro. Questo per contro è sicuramente vero.

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  17. Secondo appunto.
    Su questo, più che dissentire mi pongo delle domande: non credo che l'idea di opera in capo a un singolo sia né romanticheggiante né adolescenziale - tra l'altro la cosa divertente è celata in quella tua virgola tra le due, cioè l'assunto che le due cose coincidono! :-)
    Piuttosto immagino questo come uno dei tanti modi per fare musica (e fare arte: perché tutto sommato qui il discorso non resta più sul piano prettamente musicale). L'opera musicale in capo a un singolo non è né specificatamente legata al romanticismo né all'adolescenza; come esempio, su un terreno che conosco poco, i grandi improvvisatori vocali del Cinquecento o del Seicento riuscivano a governare in capo a sé polifonie vocali complicate. L'improvvisazione era completamente loro, né romantica, né adolescenziale. Semplicemente, come tu dici, in base agli obiettivi si adattano i mezzi; per improvvisare, quindi per far musica in tempo reale, e quindi per sincronizzare i pensieri musicali di persone diverse, un mezzo molto potente è lasciare a uno solo la governance di tutto quanto, e perfezionare i meccanismi con cui questo può comunicare le sue volontà o esigenze agli altri. Non è mica l'unico modo (il jazz sceglierà strade molto diverse), ma è più che legittimo, e per nulla romantico, e per nulla adolescenziale.
    Però sono d'accordo che questa modalità non è sempre (e non oggi) la più fruttuosa. Però la soluzione non è mica iniziare a collaborare alla rinfusa. Le scritture a più mani che funzionano sono quelle in cui o i ruoli sono chiarissimi, e ciascuno ha una grandissima competenza tecnica ed estetica nel suo ruolo, e ciascuno ha stima dell'altro nel ruolo che ricopre (penso appunto ai Beatles e a George Martin, o a Madonna e a chi l'ha ripitchata), oppure quando i terreni si mischiano, forse è necessaria non solo una conoscenza e stima, ma anche una certa identità di vedute, o magari una completa opposizione (dipende poi dalla forma che si dà alla cosa). In ogni caso è molto più difficile, specie all'interno dell'ottica speculativa in cui siamo abituati a immergerci. Ci sono collettivi oggi anche nella musica cosiddetta contemporanea, i risultati non sono sempre fantastici, per quel che conosco. Personalmente non conosco nessuna formula a più mani che funzioni davvero bene per all'approccio speculativo (se non in casi singoli, e dove i ruoli sono molto differenziati: ad esempio Tizio orchestra il pezzo di Caio). Se poi si vuole modulare diversamente l'approccio, questo è un altro discorso, e entro certi limiti sono pure d'accordo.

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  18. @Raffaele: qui ci si comincia a divertire!

    Sollevi un sacco di punti interessanti, ma ce n'è uno che mi colpisce particolarmente.
    Tu scrivi "se [un tecnico in camice bianco] riuscisse a fare quanto detto sarebbe sicuramente un grandissimo tecnico con immensa sensibilità musicale, ma mi sia consentito dire che “grandissimo musicista” è una parola grossa."

    Ovviamente ti è consentito dire quello che vuoi, e proprio per questo vorrei chiederti di argomentare un po' questa tua affermazione: tu sostieni che chi sa realizzare una splendida interpretazione di una partita di Bach al violino è un grande musicista, e chi la sapesse realizzare al computer no. Non solo non condivido la tua affermazione, ma non la capisco, e non ne afferro i postulati...

    Una nota a margine, per i più pignoli e i più nerd: siamo d'accordo che quello su cui stiamo discutendo qui è un esperimento concettuale, basato su una tecnologia che non esiste ora e che potrebbe non esistere mai. È fantascienza, se vogliamo. Allora vorrei restringere un po' il campo di ciò che si può fare nel nostro mondo immaginario: il nostro tecnico in camice bianco avrà a disposizione software avanzatissimi con cui potrà intervenire in maniera trasparente su intonazione, timbro, tempo; potrà, se necessario, saper sintetizzare il suono di un violino con un eccezionale livello di realismo e un controllo raffinatissimo su parametri come il vibrato, l'emissione, l'articolazione e via dicendo. Ma NON esisterà un software capace di sostituire l'intelligenza musicale dell'operatore umano: le decisioni musicali dovranno essere tutte prese dal nostro tecnico *. D'accordo?


    * (attenti nerd, io credo che questo software possa teoricamente esistere, e se il nostro mondo tecnologico non imploderà prima credo anche che un giorno esisterà... ma non è di questo che voglio parlare!)

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  19. @Raffaele
    "Un buon musicista esegue tempo e dinamiche che hai scritto tu compositore in partitura. Se le cambia a questo punto non è un buon musicista."
    Secondo me non è mica vero: un'ottima esecuzione è quella in cui il compositore arriva alle prove e si accorge di cose magnifiche che nella sua partitura non aveva nemmeno notato! :-)

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  20. @tutti Discussione interessante. Peraltro sto lavorando or ora alla registrazione delle voci del coro, e mi rendo conto che c'è un fruscio di fondo dovuto al gain del microfono (alzato per prendere sonorità piuttosto flebili). Mi chiedo se levare tale rumore oppure no. Mi dico di no perché nel peggiore dei casi ce lo avrò al concerto, e mi dico anche che magari può saltare fuori un suono interessante dal trattamento elettronico del rumore di fondo stesso. In fin dei conti il rumore di fondo ce lo abbiamo sempre. Nello studio in cui lavoro sento la ventilazione. La camera anecoica dell'ircam ce l'ha a 16dB (lo studio 8 è a circa 18dB). La mia stanza alla Ciup forse è sui 40. L'appartamento della fidanzata un po' di più. L'universo ne ha uno corrispondente alla temperatura di 3K. Concludendo, ci lavoro.. :)

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  21. @Andrea, credo sia innegabile che chi sa realizzare una splendida interpretazione di una partita di Bach al violino è un grande musicista per una serie di ragioni che non sto qui ad elencare perché le sappiamo tutti. Per chi invece (un tecnico in camice bianco) potrebbe saperla realizzare al computer bisogna necessariamente comprendere su quale terreno e quali strumenti ci si muove. Non ho affermato categoricamente che in tutti i sensi non sia un grande musicista, parlo esprimendo un gusto personale, e per me una riproduzione effettuata soltanto tramite la tecnologia suscita interesse e curiosità solo fino ad un certo punto.

    Da sempre la tecnologia ha concorso a foggiare l’essenza dell’uomo, come da sempre contribuisce imponentemente alla sua evoluzione, anzi ormai (quasi) coincide con essa.
    Secondo la tua visione delle cose l’invenzione e l’uso degli strumenti tecnologici si configura non tanto come l’aggiunta di “protesi”, quanto piuttosto come una vera e propria ibridazione uomo-macchina.
    O forse intendevi completa sostituzione?
    Secondo te (secondo voi) dunque come l’uomo fa la tecnologia, così la tecnologia fa l’uomo?

    Risulta impossibile rinnegare l’effetto delle retro-azioni trasfigurative della tecnologia sull’essere umano. Risulta anche vero che esso si manifesta in modo diverso in ogni componente che costituisce l’uomo (ad es. percettivo, emotivo, cognitivo, fisiologico, genotipico, fenotipico), le quali si sviluppano e si evolvono con tempi differenti. Certe peculiarità, come quelle emotive ed espressive, palesano un’evoluzione molto più lenta di altre, ad es. quelle cognitive. Le proprietà più stabili da una parte ci consentono di poter affermare che la “natura umana” è un dato quasi inalterabile, dall’altra propendono verso una netta opposizione all’ibridazione tecnologica. Fare un bilancio quantitativo o almeno qualitativo dei pro e dei contro è ovviamente impossibile oltre che inutile, e una possibile valutazione è lasciata a ciascuno di noi, e a titolo personale.
    Io non rifiuto assolutamente il sostegno datomi dalla macchina, anzi lo apprezzo, soprattutto qualora possa essere utile per ampliare le mie capacità e la qualità di quello che produco, per accrescere la coscienza dei limiti che riconosco in me, allo stesso tempo non considero la tecnologia come un’entità esterna pericolosa o invasiva, anzi ne usufruisco ma mi preme analizzare i motivi di un possibile utilizzo e un eventuale derivante squilibrio, così come immaginarne un’ipotetica e personale risoluzione.
    Se come sembra, la tecnologia consiste nell’essere il futuro di ogni cosa, tentiamo almeno di esaminarlo, sviscerarlo e di orientarlo in base a quel che reputiamo più giudizioso e meno traumatico.

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  22. Le sperimentazioni effettuate in diversi contesti hanno prodotto e producono ancora innovazioni etiche ed estetiche sensazionali. Come risultanza della divisione cartesiana e anche baconiana fra gli elementi dell’uomo e nel rapporto uomo-natura, oltre che per effetto della riflessione scientifica e/o della tecnologia, da molto tempo, e forse attualmente ancora di più, l’etica, ovvero il complesso dei comportamenti “corretti” per una dinamica armoniosa sopravvivenza, è sottomessa ad una fortissima tensione, e questo pare incidere pesantemente anche sull’estetica. Etica ed estetica appaiono trasformate inoltre dal pesante effetto riducente o semplificante che la tecnologia adopera sull’emblema dell’intera società. Queste cose nel loro insieme hanno prodotto un pesante squilibrio e credo anche a una profonda crisi dell’estetica, dove probabilmente non è avulso il processo di astrazione e di codifica che è il fondamento principale del formalismo scientifico (e non solo), contrariamente ai segnali della natura, i segni e i codici dell’essere umano sono arbitrari.
    L’estetica risulta essere stata potentemente scardinata in arti come la musica, le arti figurative, nella narrativa o come anche nell’architettura. L’equilibrio fra umano e la sua conseguente naturale trasformazione evolutiva è stato soppiantato in favore di una devastante arbitrarietà segnica e combinatoria, come dimostrano certe tendenze musicali o pittoriche.

    Parlando del “tecnico in camice bianco” una parola si fa spazio nella mia testa: “delega”, ovvero un fenomeno che invade molti aspetti della tecnologia. Per delega intendo il passaggio alle macchine di mansioni, attività, abilità e addirittura decisioni che per natura appartengono all’uomo.
    La nostra percezione del tempo è stata considerevolmente influenzata dalla macchina: il computer. Strumento che ha generato un eccezionale incremento della simulazione.
    Mi viene però da pensare che la tecnologia probabilmente non accresce le nostre funzioni o capacità in maniera uniforme, è un equilibrio instabile, sottile… si ottengono alcune cose, e altre le si perdono.

    Sulla cultura la tecnologia ha avuto degli effetti enormi, ridefinendo radicalmente diversi concetti fondamentali come “libertà”, “democrazia”, “intelligenza”, “realtà”, “storia”, “tempo”, “memoria”, che oggi hanno assunto nuove accezioni, a tratti irriconoscibili, sfigurate per certi versi, e per altri addirittura sorprendenti, singolari, sbalorditive. In assenza di regole precise, di percezioni comuni, avviene che la metamorfosi semantica viene percepita solo da qualcuno, magari più sensibile e informato, mentre viene ignorata da altri, meno attenti, o chiamiamoli “conservatori”. Ne scaturiscono profonde divergenze, incertezze, ambiguità, persistendo fino a quando l’equilibrio si spezza, e le condizioni diventano caotiche, insostenibili, e diventa necessario un generale rinnovamento del termine, modificandone i principi d’impiego.

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  23. Passo al discorso dell’emozionabilità, cosa che per me solo un vero esecutore può darmi, e mai una macchina.
    La nostra percezione agisce e si sviluppa attraverso l’interazione con altre menti o con altri corpi. E più si estende tramite la prosperità, la sensibilità, la profondità, la complessità espressiva del corpo, più risulterà fruttuosa, efficiente, fortificante (ma mi verrebbe da dire “sana”).
    Rinunciare al corpo provocherebbe un’enorme perdita, ovvero privarsi di un aspetto fondamentale e insito nella natura dell’essere umano, la possibilità di “comunicare”.
    L’uomo ha da sempre una profonda inclinazione alla comunicazione, alla decodificazione, alla rappresentazione, alla menzogna, al teatro, alla recitazione, all’ascolto!
    L’essere umano è una particella in simbiosi, d’impronta comunicativa, cognitiva, ma anche fisio-psicologica.
    L’aspetto comunicativo non è solo materia concettuale, ma è anche inteso come azione globale della persona, intesa come entità inscindibilmente costituita da mente e corpo, considerati paritariamente comunicativi.

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  24. @Daniele:

    1.
    L'esperimento mentale, che in quanto tale è limitato a un risultato estremamente parziale e specifico, ci parla dei creatori dell'opera (un cattivo violinista e un tecnico formidabile) e dell'opera stessa (una controversa edizione discografica delle Partite di Bach), ma non si spinge fino al pubblico. Forse nel nostro mondo fantascientifico il disco riporterebbe il nome del tecnico, e non quello del violinista che gli avrebbe fornito un mero materiale grezzo su cui lavorare. Stiracchiando un po' la metafora, è quasi lo stesso rapporto che passa tra Michelangelo e il minatore che gli portava il marmo… E comunque sì, è vero naturalmente che l'ascoltatore si formerà l'immagine mentale di un violino. Ma non vedo in questo una contraddizione - l'inganno sarà benevolmente accettato, o addirittura ricercato, dall'ascoltatore, in una sorta di suspension of disbelief. Il che non toglierà nulla né al fatto che in questo futuro ascolterò la musica senza tenere conto dei procedimenti tecnologici, pienamente incidentali, che l'hanno generata e in questo senso ascolterò "la musica e punto"; né che la mia rete cognitiva sarà pronta a farsi eccitare da tutto quello che "la musica e punto" conterrà: meccanismi che già funzionano in concomitanza quando oggi ascolto Madonna.

    2.
    Primo, non attribuire a una virgola cose che non ha detto!!! :)
    Secondo, non trovo affatto ridicolo il fatto che un'opera possa essere il frutto di una sola mente. Molto di ciò che più amo lo è. Né trovo ridicola la gelosia che ciascuno di noi prova nei confronti delle idee, delle necessità interiori, dei tic, degli slanci, delle capacità e delle incapacità che lo spingono a scrivere un'opera piuttosto che un'altra, e che fanno sì che la sua musica sia diversa da quella di tutti gli altri.
    Quello che trovo ridicolo è un certo immaginario che ci segue come un'ombra, un'immagine del tutto mitizzata del singolo, titanico genio creatore, retaggio tardivo e ammuffito degli aspetti più superficiali del romanticismo; mi irrita vedere come più di un mio collega promuova quest'immagine, per rendersi appetitoso al pubblico più sprovveduto (e al tempo stesso diseducandolo) ma facendoci apparire, tutti, coperti da una patina ostinata di vecchiume agli occhi di chi è più attento alla temperie culturale contemporanea. E sì, siccome gli adolescenti sono particolarmente intenti alla contemplazione ammirata del proprio ombelico e del proprio ego, trovo questo atteggiamento ridicolmente adolescenziale: non romantico come Schumann, ma romanticheggiante come Allevi.

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  25. ... e poi vorrei chiarire un punto che, mi sembra, è stato travisato.
    nel mio esperimento ideale non propugno affatto una disumanizzazione della musica. La storia della tecnologia, Raffaele, è la storia del genere umano. Senza tecnologia l'uomo, una scimmia glabra senza unghie, senza denti e senza muscoli, si sarebbe estinto duecento milioni di anni fa. Il violino è tecnologia raffinatissima, non meno del computer: semmai, di più - confronta il costo e lo sforzo di produzione di un buon computer e di un buon violino!
    Il mio punto, semmai, è esattamente l'opposto: l'uomo resta lo stesso, cambia solo la macchina. Da una macchina con corde e archetto si passa a una macchina con tastiera e mouse; ma in entrambi i casi ci vuole un musicista che la controlli, o non ne uscirà musica.

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  26. @Andrea, potremo scrivere ancora decine di commenti su questo punto senza mai venirne a capo.
    Non saremo mai d’accordo.

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  27. @Raffaele e Andrea
    Ritorno dopo qualche giorno e mi inserisco nella discussione sulla comunicazione e sulla macchine. L'argomento mi ha sempre affascinato, e continua sempre. Mi sembra molto simile all'argmoneto sulla musica composta con strutture o senza, precostruite o processate. Molto dei miei pensieri gira intorno a questo problema e tocca anche la macchina. Prendiamo l'esempio della CAO. è meno emozionante, o meno musica rispetto a quella composta nota per nota? Secondo me non è possibile saperlo semplicemente all'ascolto, le due cose sono uguali...all'ascolto. Tutto è struttura e niente è struttura. Lo stesso vale per le macchine e l'uomo. O per natura e cultura, o artificiale e naturale. Per me l'idea di natura è artificiale. Così come tutto è natura, anche l'inquinamento e le città sovrappopolate, la fine e l'inizio dell'universo. Siamo in mezzo a questo guado e quindi mi sembra che quello che dite in fondo non ci porti fuori, ma resti dentro a questa cosa insolubile. La stessa composizione è tecnica di scrittura, e compositore è tecnica di scrittura e di simulazione e invenzione della finzione che è la musica. La stessa emozione musicale è fiction. L'interpretazione è fiction e si spera di essere nella parte il più possibile per essere credibili. Dov'è la differenza tra vero e falso in musica? Tra emozione e lucidità?

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  28. @Eric
    Impeccabile!

    Aggiungo questo; tu parlavi della CAO, che per i profani che ci leggessero è una sigla per "Composition Assistée par Ordinateur" (composizione assistita al computer), e che gli anglofoni chiamano CAC. Non c'è nulla di "innaturale" nel voler confrontarsi con una macchina. Nel momento in cui io provo un accordo al pianoforte, c'è qualche zona del cervello che si mette in movimento, e spesso ho l'impressione che questa zona sia piena di pezzi già suonati, di roba che mi piace tantissimo ma è di altri, di roba che mi piace meno, ma che si suona facilmente, e così via. Insomma, il cervello mi pare sia una cosa potentissima, ma allo stesso tempo enormemente limitata in questa sua potenza. Dialogare con qualcosa di infinitamente meno potente, ma che non ha le limitazioni date dall'abitudine (il computer), può voler dire scardinare per qualche istante il circolo vizioso dell'abitudine. Magari attraverso il meccanismo della sorpresa: il computer ti restituisce qualcosa che non ti aspettavi, e che improvvisamente ti fa cambiare prospettiva e ripensare un po' tutto. Un'epifania, insomma.
    Per inciso, quei circuiti di pensiero limitati dall'abitudine, sono gli stessi che ogni tanto mi fanno scrivere cose di cui poi mi pento (perché essenzialmente retaggio di roba non mia). La CAC per me è sempre più una possibilità di uscita. Non un idolo, né qualcosa di intoccabile; solo uno strumento che mi suggerisce che c'è qualcosa al di là di tutti i miei paraocchi.

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  29. Per me anche è una via. Ma non d'uscita, ma di entrata. Per me si tratta sempre di scrittura e riscrittura. Accettare e entrare nel meccanismo di creazione delle idee, che è concretissimo: dei segni e delle tracce. La CAC è una di queste riscritture. In questo momento io uso tutto: penna, matita, improvvisazione, CAC, midi, sequencers....ecc. Questo mi fa andare sempre più giù..e sempre più su!! (si spera)

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  30. Ci sono molti spunti che spero si possano riprendere in altri post. Mi riferisco alle riflessioni di Andrea e Raffaele sul ruolo dell'interprete e a quelle di Eric e Daniele sulla CAC o CAO. Per altro ... in questo momento condivido le stesse derive metodologiche di Eric... chissà... Vorrei però tornare solamente un instante sul lavoro di Simon, per proporre una riflessione (magari da sviluppare) intorno ad un concetto secondo me centrale in questo lavoro e in altri dello stesso autore: la ridefinizione dell'idioma strumentale.
    Non è un tema nuovo e premetto di escludere barbaramente i risvolti linguistici di tale termine per darne qui un senso limitato alla tipicità del gesto di uno strumento da un lato, e alle potenzialità di produzione del suono che lo rendono particolare e unico dall'altro.
    So bene che si tratta di un gioco forzato e molto prossimo al paradosso: per molti l'idioma è associato esclusivamente alle tecniche stilizzate che consentono una chiara percezione della sorgente strumentale, mentre per altri è un argomento che colloca lo strumento-oggetto al centro di una ricerca (spesso pragmatica) che automaticamente ne ridefinisce l'abitudine strumentale.
    Se la si vede così.. si potrebbe grossolanamente contrapporre Boulez con Lachenmann, Fedele con Billone, Fujikura con Cendo. Ripeto, prendete questi paragoni come barbari e magari utili a supporto del mio italiano.
    La ricerca di "suoni altri" che escono da "tecniche altre" è comunque un elemento comune al mondo della contemporanea, ed è pur vero che per moti di noi l'estetica (o quanto meno la pratica) lachenmenniana della "musique concrète instrumentale" è stata fonte di ispirazione. Uno degli elementi di maggiore interesse nel lavoro (nei lavori) di Simon è a mio avviso riconducibile ad una sorta di superamento della componente ideologica del "gesto strano" in favore di una maggiore freschezza. La vera forza è nel gioco, nel virtuosismo combinatorio che nasce proprio dai Lachenmann e dai Lachenmanniani al cubo, ma che imbocca una strada inaspettata: suono diventa gesto, gesto diventa gioco, il nuovo gioco ha nuovi giocattoli (megafoni & co).
    Il ruolo dei Toy Instruments sta diventando sempre più importante nella musica giovane, dalle aperture cognitive-sensoriali di Lanza, alle vertigini di virtusismo cameristico di Steen-Andersen (che non ho difficoltà a paragonare all'ultima produzione di Christophe Bertrand... ne riparleremo). Il fenomeno è dilagante, e talvolta mi inquieta constatare un uso modaiolo di tali preziose risorse... per questo motivo credo sia necessario riconoscere a Simon e Mauro una autenticità che nasce da un bisogno percettibile. Nel caso di Simon, l'idioma ha forse superato lo strumento, ricordo un bel lavoro per corda di violino solo. So di aver aperto un argomento importante nonostante la premessa; in definitiva le sfumature sono molte e meritevoli di indagine.
    Mi piacerebbe poi riparlare con voi del Mastering... io mi sto sempre più convincendo che sia diventata una necessità compositiva. Se i vecchi professori di composizione parlavano di "orchestrare il pedale del pianoforte", forse noi parleremo di compressori...

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