lunedì 12 marzo 2012

Ancora la meta-cosa?

Quando ero più piccolo, avevo nella libreria un piccolo catalogo di una mostra con un dipinto di Ferroni in copertina e un grande "LA METACOSA" come titolo. Non credo di averlo mai aperto. Mi sono avvicinato a Ferroni per altre vie, ma il catalogo è rimasto chiuso nell'armadio, a meno di un metro da dove ho dormito ogni sera per vent'anni - con ogni probabilità è ancora là.

Una nota biografica di questo tipo potrebbe lecitamente essere chiosata con un grandissimo chissenefrega, però quel libro chiuso ha significato per me almeno due cose: innanzitutto è stato il primo passo per tenere la magia del contenuto confinata in un nome esoterico ed evocativo; e poi è stato una specie di scatola-nera rispetto a cui potevo provare a commisurare il mondo (essendo il suo contenuto ignoto per certi versi il miglior contrappeso per una realtà da decifrare). Da qui potrebbe partire una lunga apologia dei libri chiusi, e invece no.

Mi guardo indietro e mi chiedo quali siano le cose che amo. Una certa parte è composta da frecce lanciate verso altre direzioni. Mi specchio in Calvino e Borges perché ogni pagina è una lezione di composizione; adoro Berlino perché non è mai uguale a sé stessa; amo Flann O'Brien, perché le note a pié di pagina nel Terzo Poliziotto sono un libro di per sé; mi piacciono le sculture di Melotti la cui leggerezza punta altrove; amo la Sinfonia di Berio perché mi ricorda che il diritto d'autore è spesso una forzatura; ascolto Elio e le Storie Tese e guardo Family Guy perché nulla va mai preso troppo sul serio; amo Bach perché rimanda al cosmo come vorrei che fosse (e invece non è).

Ora mi guardo intorno, e mi chiedo quale sia un comune denominatore tra le musiche delle persone che mi circondano, e constato che a molti intorno a me (e a me per primo, per certi versi) lo scrivere "note che abbiano valore solo in quanto note" sta stretto. Collages, citazioni, crossover, objets trouvés, teatro musicale, poetiche del gesto, rapporto musica/testo o immagine/testo, creazioni di simbologie musicali, uso di materiali connotati. Probabilmente sono tutti modi per sfuggire al fatto che la musica non è (in buona sostanza) un linguaggio, e quindi non ha (in buona sostanza) alcun significato (pur avendo un senso). Ne si discuteva qualche tempo fa con Giovanni Bertelli, e si ipotizzava che ciò fosse una risposta di necessità a una drammatica crisi di valori: non sappiamo proporre nulla, e allora ci arrabattiamo con quel che è già stato scritto, suonato, proposto. Può esserci del vero, ma non credo sia così semplice, almeno per due ragioni. La prima è di principio: temo che la domanda "Da dove viene la musica che scrivo?" necessiti una risposta più approfondita rispetto ai compartimenti stagni del diritto d'autore (e forse, dopotutto, non ci serviamo di ciò che è già stato scritto, suonato o proposto, anche quando siamo soli davanti a un foglio o al computer? Una poetica della non-autenticità è in questo senso quasi un atto di franchezza). La seconda è storica: il problema del confronto della musica con la musica non è certo cosa che nasce con il postmoderno, né con il Novecento, ma esiste da ben più tempo.

Intendiamoci: come ascoltatori quasi sempre siamo alle prese con contenuti meta-musicali. Quando parliamo di un fortissimo improvviso in una sinfonia di Beethoven stiamo appiccicandogli un "marker", quando parliamo di quel salto di quarta eccedente in Puccini, identifichiamo un momento e una tipologia di scarto melodico, e così via. Analizzare musica è, naturalmente, sempre fare meta-musica; ricordarla pure; interpretarla e parlane, anche. Sarei tentato di azzardare che anche ogni ascolto di musica ha in realtà rappresentazioni meta-musicali, ma non sono per nulla un esperto né di psicoacustica né tantomeno di neuroscienze, e davvero non mi avventuro oltre.

Aggiungo (e ringrazio Marco per avermelo recentemente ricordato) che memoria e previsione giocano un ruolo fondamentale nella presa di distanza meta-musicale, e non di rado diventa elemento attivo nella stesura di un brano. In ogni caso l'opera musicale è per sua natura temporale, e le relazioni tra le parti si fanno per forza di cose attraverso la memoria e la previsione - il che sembrerebbe portarci ancora una volta al fatto che ogni ascolto è un meta-ascolto? Ma, anche prendendo la cosa da questa angolazione, c'è gente che ha idee molto migliori delle mie: lascio a loro la parola e non mi addentro oltre.

Altra cosa è, certamente, incorporare caratteri meta-musicali nella propria scrittura. Vorrei prendermi qualche riga per fare una breve e lacunosa tassonomia delle modalità con cui la musica può rimandare altrove che alla musica stessa. Nella totalità dei casi si tratta di lavoro non sulle cose, ma sui modi in cui le cose vengono in relazione - sulla meta-cosa, appunto. (Benché le prime due voci difficilmente siano considerate meta-musica, e più spesso vengano ascritte a semplici procedimenti compositivi, in esse vi è la coscienza di operare con entità che vanno al di là del contenuto musicale stesso - questo farebbe aprire una lunga diatriba sul contenuto musicale e sulla forma; tagliando corto: se vi disturbano, ignoratele!)
  • Relazioni formali: le forme più o meno classiche, la ripartizione in movimenti, o tutti i rimandi interni che per scelta risultano macroscopici all'ascolto rientrano in questa categoria. Stiamo parlando di una gran parte del lavoro compositivo (tra cui, come già accennato, l'eventuale gestione consapevole dei meccanismi di memoria e di previsione).
  • Autocitazioni interne: utilizzo dello stesso materiale per dare unità formale a un brano: dalle messe cicliche a Robert Schumann, anche questa è una tecnica ben più che standard; però porta sicuramente con sé un contenuto meta-musicale. 
  • Trascrizioni, rielaborazioni, orchestrazioni, etc.: sono meta-musica per definizione.
  • Citazioni vere: che spaziano dal lavoro su temi noti - ad esempio i richiami al Dies Irae (dall'Isola dei morti di Rachmaninoff, alla Fantastica di Berlioz, a Liszt e così via) - sino all'utilizzo della citazione come elemento poetico o strutturale per la composizione (basti pensare a Sinfonia di Berio). Il senso di una vera citazione è la sua (sostanziale) riconoscibilità (per un certo pubblico, naturalmente), o quanto meno l'idea che sia un rimando a qualcosa. Se non c'è questa volontà, poeticamente non si tratta di un procedimento meta-musicale (magari operativamente sì, ma è un altro discorso).
  • "Esercizi di stile": il contenuto musicale richiama forme o modalità codificate e (più o meno universalmente) note. Questo può succedere con vari gradi di accademismo; tipicamente, se non c'è accademismo c'è una qualche forma di ironia. Giusto per dare qualche esempio (tra i tanti), si pensi alle marcette da banda di paese in Mahler, o al Valzer nel Pierrot Lunaire
  • Tematizzazione del rapporto con il passato. E' quasi una declinazione degli "esercizi di stile": parliamo di Stravinsky, Hindemith, il gruppo dei Sei, e così via. Tipicamente è questa quella che viene definita "musica al quadrato".
  • Commistioni stilistiche: non si vuole richiamare l'attenzione sullo stile in sé, né si vuole tematizzare il rapporto con un dato stile, ma piuttosto si punta l'accento sul contenuto dello stile e sulle barriere stilistiche, ponendo eventualmente in rilievo la necessità di abolirle o modificarle. L'idea è tipicamente un allargamento dello sguardo a forme musicali diverse da quella codificata come "colta". Al di là del tanto "crossover" scadente, l'esempio più interessante resta forse la musica di Romitelli (pensiamo a Drowningirl).
  • Utilizzo di materiale connotato: materiale che non è utilizzato per quel che è (e qui si aprirebbero ancora lunghe discussioni…), ma per quel che rappresenta (storicamente, culturalmente…). Pensiamo a un utilizzo di una cadenza perfetta o di un accordo maggiore. Se vogliamo, si tratta un approccio ideologico: la triade maggiore è usata non (solo) per il suo contenuto musicale, ma perché rappresenta una risposta a periodi di ripudio della consonanza. Il minimalismo e i suoi dintorni forniscono tanti esempi; ma moltissimi altri ce ne sono anche fuori da tale arcipelago. Il primo che mi viene in mente (perché recentemente citato da qualcuno) è Hungarian Rock di Ligeti.
  • Musica "applicata": affronta a viso aperto il meta-musicale per definizione! In questa categoria rientrano teatro musicale, colonne sonore, musica per danza, sonorizzazioni… e quindi anche i vari rapporti musica/testo, immagine/testo, musica/danza, e così via. Può rientrare anche tutto ciò che è trattamento testuale e scelta del titolo (riprendendo l'esempio romitelliano, il testo e il titolo di Drowningirl sono riferimenti a Lichtenstein), ma questo è forse al di là del lavoro specificatamente musicale, e tenderei a lasciarlo da parte. Mi limito solo a constatare che spesso i titoli entrano in diffrazione o risonanza con la musica stessa, essendo quindi il primo elemento di meta-musica in un brano (il sapere che si chiama Scala del diavolo influenza il mio ascolto dello studio di Ligeti…)
  • Collage (o bricolage): ce ne sono un'enormità, almeno dal quodlibet delle Goldberg (ma in realtà da un po' prima…), passando per tutte le sperimentazioni degli anni 60 - e magari vale la pena di richiamare ancora Sinfonia di Berio.
  • Utilizzo di suoni associati o associabili ad entità o azioni reali: dagli intonarumori, ai richiami di uccelli, dai megafoni agli allarmi, dalle sirene radio agli elicotteri, i pezzi sono davvero tanti. Per non far torto a tutti gli esempi che mi vengono in mente, ne cito uno dei Beatles: la sveglia in A day in the life. Che questi suoni provengano dalle entità fisiche che richiamano (e.g. una sveglia che suona sul palco) o che siano solo allusioni (un trillo di glockenspiel e celesta, o una registrazione della sveglia stessa), probabilmente fa poca differenza ai fini di questa analisi - ma ne fa molta naturalmente da un punto di vista compositivo. La funzione di tali suoni è declinabile rispetto alla struttura e al contesto: possono essere objets trouvés, o avere valore didascalico, o immaginifico, o cinematografico, e così via. Una declinazione interessante è quando tali suoni non rimandano solo all'oggetto che li ha prodotti, ma anche a una certa situazione di cui l'oggetto diventa simbolo o metafora (dagli annunci in Different trains di Reich, alle frasi d'apertura dei Professor Bad Trip in Romitelli). In questa categoria entrano anche i suoni con funzione evocativa (ad esempio un suono soufflé per evocare il soffio a un palloncino che vola come metafora di qualcosa, un rumore di chiavi per evocare un brusio di fondo, e così via).
  • Completa meta-musicalità: il brano è costruito nella sua interezza ed essenza come meta-brano (qui rientra ad esempio una buona parte dei lavori di Cage, l'esempio più lampante essendo 4'33"). Probabilmente anche il lavoro dei DJ rientra appieno in questa categoria.
Tutta questa catalogazione è al contempo incompleta e semplicistica (dimentico sicuramente un sacco di roba…), però forse rende un'idea di quanta carne al fuoco ci sia nel parlare di "meta-musica". Ciò non toglie che abbia senso chiedersi se e quali elementi, in questa pluralità approcci, siano tuttora validi, moderni - come sottolineava Eric - e non (solamente) post-moderni. Dichiaro immediatamente che non ho una risposta convinta. 

Trovo che ci sia qualche aspetto stantio, e poco sano, come un certo compiacimento autoreferenziale; paradossalmente il referenzialismo ipertrofico finisce per essere fagocitato dal suo stesso rimandare ad altro, ma questa è questione di modo, e quantità, e qualità. Trovo che ci sia un'idea di "sapere collettivo" che rimanga attuale; sempre paradossalmente, l'approccio meta-musicale è un tentativo di far aderire la musica al suo ruolo sociale, assumendo implicitamente che l'importanza sociale di un brano è in qualche modo legata al numero di sue citazioni e riferimenti (di ogni genere). Questa visione secondo me resta in qualche modo attuale, e anzi riapre la questione del ruolo sociale dell'arte. (Il pluricitato episodio di Sordi al concerto di musica contemporanea dimostra che, negli anni Settanta, della musica contemporanea quantomeno si parlava, pur ridicolizzandola!)
Certo è possibile che le risposte a tutto ciò non debbano arrivare dalla iperreferenzialità, ma da altri versanti. Mi pare, personalmente, ben più che ragionevole. E allora approvo anche la tesi che Eric ha già espresso su questo forum: bisogna saper ritornare anche "al punto", alla musica di "livello zero". Ma al tempo stesso non liquidiamo le "esperienze linguistiche" come fallimentari: hanno contribuito ad allargare l'orizzonte, e trovo che tale apertura (a differenza di altre) sia anche perfettamente connaturata ai mezzi di espressione. Forse bisognerebbe al contempo non dimenticarsene e guardare avanti.

15 commenti:

  1. Ciao. L'argomento è molto stuzzicante. La prima cosa che mi viene in mente, leggendo il tuo catalogo, è quello di Paolo Castaldi, primo postmoderno italiano (prima ancora di Sinfonia di Berio, tipo nel 1961), che ha sempre parlato di formalizzazione dei significati. Sento personalmente che la sfida oggi sia nella musica a "livello zero", o piuttosto schietta, concentrata su ciò che vuole dire piuttosto che sul labirito calviniano, meno sul virtuosismo della scrittura e più sulla forza dei contenuti. Devo però riflettere qualche ora per dire una cosa sensata...a presto!

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  2. Trovo questo articolo interessantissimo, complimenti Daniele!
    Mi piace molto l’argomento, se non altro perché tocca direttamente anche alcune delle mie corde.
    Calvino, Borges ma anche Joyce, Kafka* hanno rappresentano, e rappresentano ancora gran parte del mio “pane quotidiano letterario”, che si tramuta in autentiche lezioni di composizione.
    Inoltre il mio scrivere è perennemente accompagnato, o molto spesso sovrastato dal pensiero teatrale e dall’aspetto drammaturgico. Le riflessioni di autori come Antonin Artaud, Carmelo Bene, Konstantin Stanislavskij, Eugene Ionesco o ancora l’aspetto concettuale della commedia dell’arte come anche del teatro giapponese Kabuki e Nō hanno profondamente influenzato il mio modo di comporre e di pensare alla musica. Basti pensare che anche l’aspetto della spazializzazione nella mia visione è come un “teatro acustico” in movimento, ne risulta che anche la scelta del posizionamento degli strumentisti sul palco ha un suo ruolo e significato specifico.
    Quindi sento addosso tutto il peso del tuo quesito: "note che abbiano valore solo in quanto note".
    Credo che nella maggior parte dei compositori della nostra generazione il concetto del comporre “musica pura” sia un requisito limitato o limitante.
    Riveste sempre maggiore importanza il dover dare un senso da ogni nota, ogni gesto, certe volte perfino ogni pausa. Ma possono le note avere, o meglio tornare ad avere un significato assoluto?
    Domanda ardua. Scomoda.
    Forse una risposta non esiste.
    La libertà di espressione ha sfondato limiti che fino a qualche decennio fa pareva impensabile. Molte delle correnti basate sulla contaminazione stilistica e concettuale (penso fortemente al gruppo Fluxus ad esempio) ha allargato gli orizzonti. Tutti noi ne abbiamo usufruito, anzi abusato.

    Capisco l’insistenza di Eric sulla “musica schietta”, una musica pura, assoluta, dominatrice su tutti gli elementi che compongono la nostra rappresentazione del mondo, per usare parole di Schopenauer, però c’è da porsi una domanda, che molti artisti (non solo compositori) mi hanno rivolto quando si è discusso dell’assolutezza in materia artistica: non è forse lecito che ognuno possa tranquillamente essere padrone di sé stesso e dei suoi desideri creativi?
    Chissà.

    Io non so se la nostra generazione sia pronta ad un taglio netto, per mia esperienza personale, ultimamente tento di evitare il più possibile “fronzoli”, concentrando il pensiero principalmente sui suoni, e sempre meno sull’aspetto filosofico-estetico-concettuale.
    Ma sento che non basta.
    Vi/mi rivolgo un’ennesima e ultima domanda. Dopo quanto detto, comporre un’opera oggi o in futuro, sarebbe dunque inutile?


    *A tal proposito invito a leggere questo bellissimo saggio su Kafka e il silenzio della musica:
    http://users.unimi.it/~gpiana/dm4/dm4kafsb.htm

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  3. Secondo me la musica al "livello zero" non esiste: o la musica accende la rete cognitiva dell'ascoltatore, o non produrrà senso (senso, non "messaggio": http://www.youtube.com/watch?v=gJ5_2XDQ-n4 - mi interessa soprattutto l'inizio). Questo meccanismo può essere più o meno scoperto e non vorrei addentrarmici ora, ma mi sembra assolutamente necessario. Negarlo porta ad alcune conseguenze devastanti: per esempio, pretendere che la musica di Mozart sia "veramente universale", come sostiene il povero Casella a proposito della Sonata in Re Maggiore nell'edizione in cui la studiavo da piccolo. O peggio ancora, tacciare di insensatezza tutte le musiche di cui non conosciamo il vocabolario. Io l'ho sentito dire, da persone non stupide e non ignoranti, di molte cose meravigliose tra cui queste:

    http://www.youtube.com/watch?v=ldPMifPbngc
    http://www.youtube.com/watch?v=3xAWQpjgQhI
    http://www.youtube.com/watch?v=08yg5cq_4rI

    La musica contemporanea si è spesso voluta e spesso si vuole del tutto astratta, puro suono o puro pensiero secondo i casi. Non credo che sia possibile né, nel bene e nel male, che abbia mai funzionato: semmai, vedo in questo atteggiamento uno dei germi a causa dei quali la musica contemporanea è stata dimenticata dalla letteratura, dalla danza, dal cinema, dal teatro - e, naturalmente, dal pubblico. Perché è una strada breve e lineare quella che porta da "musica pura" (che non esiste) a "musica che non vuole avere senso" (difficile, ma stimolante) a "musica che non dice niente" (molto pericoloso) a "musica che non dice niente di interessante" (ahi) a "musica che non è di nessun interesse" (cioè, come il resto del mondo ci vede): e infatti il ruolo culturale e sociale della musica contemporanea è precipitato nel baratro che conosciamo proprio quando i compositori hanno deciso che era ora di aprirsi ad un pubblico più vasto rinnegando il bagaglio concettuale, e al limite anche politico, dell'avanguardia, abbandonandone le durezze e producendo una musica meno problematica e più confortevole.

    Detto ciò, credo anche che l'utopia della musica assolutamente pura possa essere un potentissimo strumento di pensiero e di immaginazione nelle mani del compositore. Ma oggi ci è richiesto anche uno sguardo più distaccato e cosciente delle implicazioni di ciò che scriviamo, perché la nostra musica e il nostro mestiere abbiano un senso.

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  4. @todos
    Il problema è di metodo. Nel senso che la musica apra delle connessioni, come dici tu, è inevitabile. La mia conclusione è diversa. Ma allora, siccome è inevitabile, perchè pensarci su tanto? Pensare alla musica!! nient'altro! La schiettezza non è musica assoluta, è fare cose seguendo qualcosa da dire senza troppo pensare al resto. Insomma, che cosa mi vuoi dire con la musica? Per me la bellezza, e le connessioni, sono tutte da scoprire, di nuove!! senza quelle che già conosco. Non so se sono chiaro, perchè non ho mai parlato di musica assoluta.

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  5. (Tra l'altro mi sa che ho dimenticato nell'elenco una voce importante: i compositori per cui in realtà la musica è davvero un linguaggio, e quindi sostanzialmente non si pongono il problema, poiché musica e meta-musica coincidono. Penso, ma potrei sbagliarmi, a un certo Ferneyhough, o a un certo utilizzo di processi logico-matematici come unico vero mezzo di espressione musicale. Personalmente trovo entrambi gli approcci assurdi, ma è davvero la mia opinione.)

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    1. e infatti mi mancava... se vuoi e ci vogliamo sbiazzarrire, ne tiriamo su a caso un centinaio in men che non si dica!

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    2. Eheheh... un centinaio non saprei, qualche manciata di sicuro!

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  6. C'è un parola che credo manchi alla conversazione: memoria. In definitiva (forse indipendentemente da un approccio tassonomico) la musica può essere veicolo di senso extra musicale agendo proprio su questo aspetto della percezione. Allora l'asse di lettura del problema si sposta, l'atto compositivo è consapevole non solo dell'astratto musicale (esiste???) ma anche del contesto in cui esso viene posto o per il quale viene scritto, o al quale si rivolge. Esiste una memoria condivisa? e addirittura, può diventare parametro compositivo? (dovrei citare qualcuno che forse ci legge ma aspetto, magari, un suo piccolo contributo).
    Talvolta il giovane compositore viene schierato: "...questo pezzo è sciarriniano" o "bouleziano" e così via. Il torto di queste affermazioni è in buona parte nella pigrizia dilagante che imperversa nell'ambiente della critica musicale, raramente si "spreca tempo" cercando di indagare i dettagli della ricerca di un giovane compositore; trovo tuttavia che una certa responsabilità venga dai compositori stessi. Il gesto ha un senso; è portatore di pensiero, spesso ce ne dimentichiamo... o spesso si reagisce per filtraggio, evitando il "già sentito". Nell'ultimo caso è lampante e recente l'esempio dei saturazionisti francesi. Nati da poco, ormai riconosciuti come "corrente musicale", essi hanno generato di già una schiera di piccoli adepti che diffondono un verbo non loro. Come si può dire che la musica non è linguaggio?
    Cambio radicale di prospettiva: il suono strumentale come mimesi della parola. La frontiera non è ancora stata del tutto abbattuta, ma ci sono anche qui diversi esemplari interessanti: Sequenza per trombone di Berio (WHY), i lavori di Barlow o... Speakings di Harvey.
    Ciò che forse è più interessante è quindi forse altro. Perché ci interessa tanto indagare l'aspetto linguistico della musica?perché ci si interroga in modo reiterato sulla musica come "veicolo di senso"?
    Ipotizzo una risposta: ci interessa il controllo.
    Talvolta ci interessa in modo gratuito, talvolta sentiamo l'esigenza di formalizzare per replicare, talvolta formalizzare significa cercare l'assoluto.
    La domanda vera è quindi: perché devo controllare?
    Evidentemente tutti noi abbiamo dovuto penosamente descrivere il nostro lavoro al nostro vicino di casa, e credo che l'unica certezza che qui posso condividere sia l'incapacità delle nostre parole nel far capire il nostro modo di vivere la musica.
    In un contesto quotidiano anche il linguaggio verbale fa talvolta cilecca e il contesto a cui mi riferisco ha dei codici di gran lunga più condivisi di quelli musicali. Allora mi chiedo il motivo per cui si insiste a non ammettere che il compositore non può avere il controllo su tutto. Forse sta a noi proprio il cercare nel buio, lo scovare nodi di memorie, sensi e visioni futuribili o archetipali che siano; senza però che la piccola componente linguistica della musica ne determini il metodo.
    L'elenco di Daniele mi sembra interessante, ma non posso negare il senso di frustrazione che nel leggerle mi ha colto, ha senso ancora cercare l'esistenza di Dio? La mia risposta è limitata ad oggi, ognuno ha il suo metodo, ognuno vive la faccenda a modo suo, per questo mi sento più vicino alle posizioni di Eric, con una postilla. Ognuno ovvero la persona, non il compositore. Sono convinto che le persone siano il terreno di ricerca dal quale partire per cercare il comunicabile. Furbi o visionari, che abbracciano il passato o lo rifiutano, che coltivano il mercato in cui sono o meno, che si confrontano o si impongono. Sembra una dichiarazione di arresa, ma vuol essere l'opposto: un responsabile e fallibile atto di responsabilità, quando le vecchie o nuove avanguardie con i loro schieramenti non bastano più.

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  7. @Marco
    L'elenco non aveva l'obiettivo di "cercare l'esistenza di Dio", volevo in realtà solo cercare di mettere ordine in quello che nel mio cervello era un guazzabuglio. Non è certo da un elenco che si scrive musica, né è quell'elenco il fulcro del pensare, per carità!
    Delle cose che dici, ne condivido molte, alcune però no. Non condivido ad esempio la prossimità che dai a "senso" e "significato", però forse questa è solo una divergenza linguistica. Io non mi interrogavo sulla musica come "veicolo di senso": la musica (specialmente la buona musica) è per fortuna un grandissimo veicolo di senso. Mi interrogavo sulla musica come "veicolo di significato", e questa è un'altra questione - intendo con significato esattamente quello che hanno le parole che sto scrivendo ora: sono sostanzialmente univoche (sostanzialmente!), e bene o male il messaggio passa a chi le legge e conosce l'italiano. In questo senso la musica non è un linguaggio, secondo me. Andrea, nel suo commento, ha inserito un link recentissimo a un bell'intervento di Bertelli proprio su questa faccenda, e io mi trovo sostanzialmente d'accordo con lui (tra l'altro fa anche un accenno alla "musica a programma", altra parola importante mancante nel post originale).

    Se è vero che non si può controllare tutto, e bisogna esserne consapevoli, non sono però d'accordo che si esageri nel voler "controllare" ("controllare" è una brutta parola), e trovo addirittura pericoloso allontanarsi troppo nella direzione opposta.
    Forse il problema non sta nel fatto che la musica abbia più livelli, ma che questi siano integrati abbastanza bene da permetterci, quando pensiamo di situarci in un certo piano, di inglobare automaticamente tutti gli altri in una visione sinergica. La cattiva meta-musica è quella che non mi lascia godere del tutto, è la musica a programma dove si sente solo il programma e non la musica. Prendo ancora il quodlibet delle Goldberg: lì tutti i piani aderiscono completamente, non c'è scollatura. Eppure c'è un tentativo (certo, anche frutto di goliardia e di tradizione) di dare un significato oltre che un senso, no? Il riconoscimento dei motivi è una operazione sostanzialmente (!) univoca, per gli ascoltatori che li conoscono. Però condivido che l'interesse e il divertimento in tutto questo sta anche (!) in quel "sostanzialmente!", che allude al momento o alla situazione in cui i meccanismi di significato, per qualche bellissima ragione, falliscono.

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  8. Ciao. Su Ferneyhough non penso che lui abbia in mente un linguaggio, al contrario mi sembra uno dei compositori che non crede nel linguaggio, da qui la sua scrittura. Nel mio piccolo anche io non credo al linguaggio, ma nel senso contrario di Ferneyhough. C'è una differenza di grado tra rappresentazione e vita. Ferneyhough è completamente nella rappresentazione. Quando compongo scelgo la vita, perchè in fin dei conti penso che qualsiasi referenza extra (o intra) musicale sia incontrollabile. Il linguaggio, soprattutto quando scritto, non è per controllabile nelle sue conseguenze, e a me piace lasciarmi andare e scoprire le cose senza troppo prepararle, ma limando successivamente. Secondo me il linguaggio è una pratica, e si ferma spesso li. Il resto è filosofia del linguaggio, che per forza di cose arriva dopo. Ecco, nel mio ideale voglio arrivare prima. La meta musica (metacosa) ha un contesto, e in fin dei conti mi sembra che siccome un contesto c'è sempre non valga la pena troppo pensarci, tanto vale immergersi.
    Il significato secondo me non c'è. La musica non ha significato perhè ne ha troppi e mi piace che la cosa resti aperta. Sono per non porsi il problema del significato, ma piuttosto molto senso, il più possibile. (tbc..)

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  9. @Eric
    Il grosso punto di disaccordo tra noi è questo: io non penso affatto che "che qualsiasi referenza extra (o intra) musicale sia incontrollabile". Mi pare che non sia così, e che uno qualsiasi dei pezzi citati in precedenza lo confermi.
    Su Ferneyhough non so, probabilmente hai ragione tu. E' che ho l'impressione che il suo essere completamente nella rappresentazione, per lui significhi essere completamente in un linguaggio, in cui ogni gesto ritmico, ad esempio, ha un certo significato. Ma probabilmente qui sono io che mi sbaglio.

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  10. -parte prima-
    Ciao, non mi sento di dire che non credo nel linguaggio, per il resto sposo il senso dela ricerca di Eric, in particolare il "recupero" di una dimensione di immediatezza o di rivelazione che segue un metodo più pratico (di scrittura) che teorico (filosofia del linguaggio)... pure io... nel mio piccolo. Con ciò non escludo nulla...
    @ Daniele. Per prima cosa... una correzione al mio post: non "cercare l'esistenza di Dio" ma_ ovviamente_ "cercare le prove dell'esistenza di Dio"... chiedo scusa. Credo di aver inteso ciò che scrivi, il mio piccolo scritto non voleva soffocare alcuna riflessione nel merito, ma contestualizzare. Ho sentito ciò che dice Bertelli (che per altro spero possa intervenire!). Da un lato il significato come noi lo attribuiamo alla parola, dall'altro il senso. Per Giovanni pare sia pericoloso parlare di "sensi", per me no. Mi sembra che Daniele sia a tratti vicino al pensiero di Boulez "...in musica [...] un accordo, una nota non significano niente in quanto non si trovano in un contesto, o meglio non si trovano in una "grammatica"... ha un significato acustico, ma non un significato semantico... La musica può solo fare allusione ad altre cose, ma non può rinviare che a se stessa... la musica non rinvia a nulla di quotidiano.". Questo nel '92, del resto già nel '62 la celebre frase "la musica è un'arte non significante". Mc Adams insiste "Un aspetto fondamentale della musica è che essa crea un mondo assolutamente non-referenziale (o forse auto-referenziale) il che la rende praticamente diversa dal linguaggio o da qualsiasi altra espressione d'arte". Mi scuso per le citazioni ma mi sembra siano d'aiuto. Fin qui tutto chiaro, ci sto persino ad escludere il minimo comune denominatore frequenziale (vedi la riflessione sopra su Harvey, Berio...). La mia domanda si sposta sulla parola "allusione" a cui Boulez si riferisce, può questa proprietà essere sufficiente per considerare la musica come linguaggio?La capacità di rimandare ad un "significante" (o "espressione" per usare un termine caro a Eco piuttosto che a Saussure) è o non è condivisa con il linguaggio-parola?in realtà pure in quest'ultimo universo, il processo di significazione non è affatto lineare, delle "stonature" ci sono... si pensi alla "equivocità" (Melandri), per cui ad uno stesso linguaggio possono corrispondere diverse realtà, così come ad una stessa realtà possono corrispondere diversi linguaggi. La dimensione di perdita-acquisto di sensi-connotati tra segno e oggetto è, ad esempio, quello che avviene nella metafora: rappresentare l'oggetto fissando l'attenzione su alcune proprietà dell'oggetto stesso, evocato dunque, secondo principi analogici. Riporto qui un bel passo di Cardona: "Non esistono tante realtà quante sono le lingue: la realtà biologica è una sola, ma vi è un ampio margine di fluttuazione nei modi in cui la guardiamo:... il pensiero stabilisce connessioni, metafore che ci consentono di conoscere qualcosa di nuovo in quanto simile a qualcosa di già noto. Ma tutto ciò non sarebbe possibile se la lingua (il linguaggio) stesso non possedesse la metafora in forma di costruzione lessicale...". Il linguaggio ha la caratteristica di assumere connotazioni polisemiche, e allora la penultima frase di Eric mi interessa come "scelta compositiva".

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  11. -parte seconda-
    Forse la musica è semplicemente materia significativa in forma simbolica, con una semanticità indeterminata e intraducibile; Vlad scrive "... indeterminatezza che non equivale a non significatività ma ad una plurivalenza". A questo punto se alla Boulez ti chiedi se con la musica puoi acquistare il pane dal panettiere (rappresentazione dell'oggetto equivalente al linguaggio -parola)... oggi credo di no, forse domani si; non so se mi interessa dal punto di vista estetico, certo... far "parlare" un'orchestra (sul serio) è uno dei miei appetiti nascosti e infantili... ma in questo caso credo sia la ricerca dell'assurdo a fare da molla piuttosto che l'esigenza vera e propria di comprare il pane. In merito al grado di controllo, io non me la sento di dare una accezione negativa alla parola, almeno non l'ho intesa così quando l'ho utilizzata. Trovo sia una esigenza della persona piuttosto che del compositore, quindi degnissima di rispetto; anzi, trovo questo aspetto talmente intimo e saliente da rappresentare un potente e potenziale sguardo sulla storia dei compositori (a chi mai interessasse farla!). Magari se ne riparlerà!

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  12. @Marco
    Condivido la frase di Boulez, e quella di MacAdams, ma solo in quanto dati di fatto. L'"allusione" a cui boulez si riferisce, secondo me, non è sufficiente per far della musica un linguaggio. Dopodiché, ci mancherebbe, mi appassiono da matti anche ai mezzi con cui il significato è non univoco, plurivalente. Tutti gli aggettivi "sostanziale" che ho messo nel post e nei commenti rimandavano a quello. Ma c'è una grossa differenza tra plurivalenza e non significatività, o sbaglio? Ad esempio la metafora ha valore anche in quando scollamento rispetto a un significato standard, no? E non è anche questo il bello? (la non esistenza del significato standard non impoverirebbe la cosa?)

    Con la musica non ci compri il pane, e chissenefrega, non è certo il mio sogno: non sto mica teorizzando che il significato della musica dovrebbe essere lo stesso del linguaggio! Ma nel dire che tale significato non esista (Boulez, MacAdams, che pur davvero fino a certi punti condivido), c'è sempre una piccola bugia, poiché qualsiasi procedimento meta-musicale ha invece un sostanziale significato (e nessuno direbbe che il quodlibet delle Goldberg non sia musica, no?). Trovo che se uno vuole controllare questo "significato", è liberissimo di farlo, dopodiché sarà l'approccio con cui lo fa che potrà definirsi nuovo o stantio... La musica certo non deve ridursi a quello (altrimenti ritorniamo allo scollamento di piani).

    Trovi interessante l'idea di una storia della musica in relazione al grado di controllo, e son curioso di sapere che cosa hai in serbo: perché non lo proponi per un post? :-)

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  13. Vorrei fare una ennesima considerazione collegata al teatro, e più precisamente a Carmelo Bene, che con le sue riflessioni ha imposto al mondo artistico il suo “far-teatro”, praticamente elevandolo a “meta-teatro”.
    Ritengo quindi che possa essere interessante citare brevemente quanto lui concepì a proposito del linguaggio e di quello che lui definì “depensamento”, che credo si possa collegare anche al pensiero di Eric sul “non pensarci troppo”.
    Secondo Bene, il “depensamento” è inteso come opposto del “pensare”, il non riconoscersi in nessun gesto, in nessun atto, riducendo il tutto all’essenza minima del significato. Praticamente il depensamento può portare alla meditazione, ad un atteggiamento intimo nei confronti della cosa, ad una sorta di …flusso di coscienza (Joyce docet!). Tra l’altro il suo depensamento non voleva essere una maniera di sperimentare colta (o d’elite?), ma piuttosto traeva le basi dalla tradizione popolare meridionale e religiosa.
    Partendo da queste basi il contesto assume dei contorni decisamente interessanti, deducendone quindi che il linguaggio è un tramite di importanza vitale.
    Per citare le stesse sue parole: “si è succubi del linguaggio che dispone di noi, e di cui non ne disponiamo attivamente”. Anche Schopenauer ne parla in Un Dio assente, quando scrive di "volontà senza oggettità", ovvero, "niente rappresentazione, niente mondo. Si è al di là del principio del piacere"
    Ci pensate? …SI E’ al di là del piacere…
    A me sembra che tutto questo sia molto interessante e calzi perfettamente anche per quanto riguarda la musica. Destrutturare il linguaggio significa ricercare, una ricerca focalizzata intorno ai “trous noirs” dell’arte, a quel profondo senso di mancanza (o assenza), incomunicabilità, chiusura, isolamento, che impregnano tutti i mezzi di espressione contemporanei ancora tutt’oggi.
    Ecco, io mi sento molto vicino a questo tipo di indagine.

    Pericoloso parlare di sensi? Semmai sarà pericoloso parlare di “non-sensi”, ovvero ciò che ha avvolto la musica contemporanea e non solo da ben 50-60 anni, o forse più. Parlare di sensi per me significa parlare di lucidità. Di una possibile ritrovata coscienza di tutti i mezzi, iniziando dai germi, i suoni.
    Immagino una musica nella quale ogni nota possa essere come una pallina di cristallo.

    Si citava Ferneyhough, secondo me nel suo caso si tratta di un linguaggio costituito a priori, al di là della volontà. Altrimenti non so come spiegarmi certa iper-complessità delle sue partiture.
    Le frasi di McAdams e Boulez le capivo e le condividevo fino a qualche anno fa, ora mi sembrano oscure, sfuocate.

    « È ora di cominciare a capire, a prendere confidenza con le parole. Non dico con la Parola, non col Verbo, ma con le parole; invece il linguaggio vi fotte. Vi trafora. Vi trapassa e voi non ve ne accorgete ».
    (Carmelo Bene, 1994)

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