lunedì 23 giugno 2014

Agata Zubel - NOT I


Non accade spesso che dei compositori siano anche interpreti. Intendiamoci, molti tra coloro che oggi scrivono, arrivano alla composizione da percorsi d’interpretazione più o meno significativi o in ogni caso dalla pratica del suonare (più o meno genere-esente). Dietro le musiche che sono marcate della locuzione "con influenze Jazz", ci sono spesso delle esperienze performative maturate in tali contesti.


Ci sono alcuni casi ben noti di direttori-compositori come Pierre Boulez, Peter Eötvös, Beat Furrer, George Benjamin, Enno Poppe, Esa-Pekka Salonen e Matthias Pintscher (la lista potrebbe continuare, il post precedente porta la firma di Filippo Perocco che è anch'egli compositore e direttore). Più di rado s’incappa in strumentisti-compositori (la parola ”strumentista" non mi è mai piaciuta, è qui messa per far riferimento agli interpreti che hanno pratica continua con uno strumento la cui tecnica esige il contatto fisico), tra questi troviamo il pianista-compositore Thomas Adès, la compositrice-vocalist Erin Gee oppure, tra i giovani italiani, lo stesso Stefano Bulfon (pianista) e Andrea Agostini (basso elettrico).
C'è poi un'altra dimensione dell'interpretare: quella imposta dal mezzo elettronico, dalla gestione dell'amplificazione fino al controllo del live electronics in concerto. Si tratta molto spesso di atti interpretativi di estrema importanza e troppo spesso poco riconosciuti dal pubblico: in genere chi svolge questo lavoro è necessariamente nascosto e lontano dalla drammaturgia del concerto (il rapporto visivo musicista-uditorio rimane un elemento centrale nella percezione dei ruoli nelle dinamiche dello spettacolo).

Rimane infine la parte di mezzo: il pre-concerto che significa dire molte cose. La sensibilità interpretativa dei compositori si esprime in modi molto diversi secondo le necessità degli stessi, ma per me rimane un argomento centrale, si potrebbe azzardare che certa musica, per riuscire nei suoi intenti comunicativi, richiede semplicemente di essere suonata mentre altra esige il lavoro sottile dell'interprete.

Sarebbe poi bello parlare di come la pratica della formalizzazione entri in questo discorso, in particolar modo in un aspetto talvolta terminale di tali pratiche che è quello della "simulazione". Ne parleremo, ma non oggi.

Oggi vorrei presentarvi una figura che trovo molto interessante: la compositrice e vocalist polacca Agata Zubel (classe 1978) e il suo lavoro per ensemble (sei strumenti), elettronica e voce dal titolo NOT I. Perché allora questa lunga premessa? Perché in questo brano Agata è anche interprete, suona uno degli strumenti più delicati e particolari: la voce. Qui si ha chiara percezione di cosa significhi scrivere per un'interprete che si conosce bene.

NOT I è un brano ispirato all'omonimo monologo di Beckett (lo stesso testo cantato da Agata Zubel è tratto dall'opera del 1972). Nella versione che qui vi proponiamo (esecuzione del Qaartsiluni Ensemble diretto da Lajos Rozman) non c'è la componente video prevista nella versione scenica. Non si tratta di un elemento accessorio, la proiezione dovrebbe riguardare la sola bocca della Zubel (in raccordo con la soluzione beckettiana che prevede sul palco buio la contemporanea presenza, oltre che della bocca dell'attrice, di una figura silenziosa e in posizione di ascolto). Il brano ha vinto molti premi e dà il titolo a un CD monografico (registrato dal Klangforum Wien) di recentissima uscita.

La drammaturgia-forma segue gli slanci ossessivi del dramaticule di Beckett in cui una bocca parla di se stessa, le ripetizioni testuali diventano loop (spesso incantati), le frammentazioni sono restituite attraverso un trattamento profondamente duttile del materiale musicale.

C'è del teatro in filigrana che è reso in maniera lineare attraverso l'uso di scelte strumentali efficaci e condotte con precisione della scelta.

C'è una naturalezza genuina nel transito tra i riferimenti linguistici (qui ha forse senso parlare di linguaggi), non percepisco forzature concettuali quando le percussioni diventano batteria, quando il violoncello si trasforma in chitarra o quando la voce passa dai frammenti lirici ai toni intimi di Björk passando per lontani aloni di Aperghis o di chanson de cabaret.

Un altro aspetto che mi colpisce è l'alto tasso di aderenza tra la parte vocale (virtuosistica e totalmente dominata dalla Zubel) e la scrittura per ensemble: sebbene l'impianto del lavoro potrebbe suggerire un approccio più prossimo al melologo, la scelta della compositrice è di non separare in livelli dalle distinte velocità la funzione testuale e narrativa da quella puramente musicale. C'è un elemento narrativo che è reso da brandelli di testo che richiamano a loro volta colori giustapposti che svaniscono o che s’impongono come macchie. Questa superficie colorata è solo a tratti inframmezzata da elementi puramente direzionali di accumulazione. Tutto ciò scivola in modo elegante nei venticinque minuti abbondanti del brano.

Lo stesso uso elementare dell'elettronica (principalmente presente nella parte finale del brano e non altro che un montaggio serrato e discreto della voce della stessa Zubel) diventa efficace quando si sovrappone all'assolo finale e improvvisato del percussionista sulla batteria, quasi a snaturarne il forte connotato musicale.

Ogni tanto chi scrive cerca il controllo su chi suona, non solo su quello che gli si dà da suonare ma su come debbano farlo, la soluzione di Agata Zubel mi sembra una preziosa testimonianza: una soluzione evidente a una necessità compositiva altrettanto sincera.

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