lunedì 20 gennaio 2014

Scrivere per voce, un percorso storico

"La voce è qualcosa di diverso da uno strumento perché non si separa mai dal suo interprete. Si presta continuamente alle innumerevoli incombenze della nostra vita: discute col macellaio per l'arrosto, sussurra dolci parole nell'intimità, urla insulti all'arbitro, chiede la strada per Piazza della Carità etc. Poi la voce si esprime con i "rumori" comunicativi, come i singhiozzi, i sospiri, gli schiocchi di lingua, i gridi, i gemiti, i gorgogli, le risate."
Cathy Berberian

Dopo circa un secolo dal Pierrot Lunaire sono molti, ancora oggi, i dubbi e le perplessità che ruotano intorno al comporre per voce. Se con lo Sprechgesang si compì una profonda metamorfosi del canto e molto probabilmente dell’intero concetto di vocalità, molteplici sono le correnti stilistiche che sono venute a identificarsi nel decorso di questi ultimi anni, grazie a compositori specificatamente dotati alla scrittura vocale, e a interpreti di assoluto valore, che hanno saputo seguire le indicazioni e tendere l’orecchio anche verso sperimentazioni extracolte. Rispetto ai secoli precedenti, l’importanza del testo e soprattutto il rapporto con esso, nel ‘900 viene completamente stravolto e ripensato. Non volendo minimamente semplificare il discorso, credo che vi siano stati almeno due grandi filoni di pensiero, uno che fa capo ad autori che prediligono la comprensibilità del testo, e l’altro legato a compositori per i quali l’intellegibilità della parola non appare come necessità inderogabile. La voce, contrariamente allo strumento, possiede una duttilità e una freschezza di emissione unica, cantare, emettere suoni è dialogo profondo con la propria fisiologia.
Come compositori bisogna essere consapevoli del fatto che trattare la voce oggi significa innanzitutto porsi delle questioni che inglobino necessariamente l’aspetto tecnico a quello etico.
Cosa vuol dire dunque oggi scrivere per voce? Molto probabilmente chiedere al cantante di utilizzare in toto il proprio corpo, di porre in luce ogni sfumatura e ogni risorsa presente nel proprio apparato fonico. Senz’altro importantissime sono state le contaminazioni e le intuizioni che molti dei nostri, anche immediati, predecessori hanno esplorato. Penso ad esempio all’influenza che il blues e il jazz hanno prodotto sull’emissione vocale, che miste a fusioni etniche di vario tipo hanno prodotto risultati di assoluto valore, come non citare gli esperimenti minimalisti di La Monte Young e Terry Riley, che utilizzarono tecniche di canto indiano. Nel blues e successivamente nel jazz, l'uso della voce, di derivazione prettamente popolare, smette di essere "belcanto" divenendo, anzi ritornando "suono", espressione della propria identità umana prima ancora che artistica.


Tenterò con questo post di dare, seppur in maniera non esaustiva e con spirito assolutamente anti-didattico, uno sguardo divulgativo di come alcuni autori dedicatisi alla scrittura per voce, e di conseguenza alcuni interpreti, abbiano saputo continuamente rinnovare e aprire nuovi tasselli nella sperimentazione vocale.

Molto probabilmente è grazie a Berio che la vocalità si è aperta in maniera meno schizzinosa a fusioni stilistiche e concettuali, tracciando il terreno per molti compositori che nel giro di mezzo secolo avrebbero delineato alcuni stilemi della scrittura vocale.
L’evoluzione del linguaggio di Berio passa necessariamente attraverso l’uso di nuove formulazioni vocali, frammentazioni e decostruzioni del suono in favore di una poli-dimensione narrativa, che per certi versi confluisce poi nel “dadaismo vocale” delle ricerche espressive di Kagel, dove la vocalità, per assolvere alle esigenze di rinnovamento passa anche attraverso l’attuazione di una nuova rappresentazione scenica. Senz’altro vanno citati quegli scrittori e poeti che loro stessi sono stati “compositori” del loro pensiero linguistico, oltre ai vari Joyce, Calvino, Sanguineti, penso a H. Ball, il quale aveva concepito un genere di poesia sonora, dove le parole assumevano valenze diverse assecondando talvolta esigenze onomatopeiche, costringendo gli interpreti non a declamare o cantare, ma superare gli ostacoli di un certo tipo di rappresentazione del suono-vocale agendo su elementi border-line presenti nella voce umana come sussurri, rumori, gemiti, utilizzando un processo di frammentazione e simultaneità delle voci molto vicino a certe scuole compositive sperimentali,
Per certi versi questo tipo di libertà compositivo/testuale è riscontrabile anche in Ligeti, penso soprattutto a Aventures, basato su un processo di frammentazione sillabica e ricostruzione connettiva delle stesse, usando sequenze vocali a bocca chiusa dove il tutto si tramuta in brusio confuso ottenuto con labbra, lingua e mascella. Il testo viene scorporato e trattato da Ligeti in fonemi, conferendo loro pari dignità di un testo declamato. A tal intento lo stesso Ligeti affermò: «Una di queste idee era creare musica da suoni umani - cioè "poemi" di puro materiale fonetico, senza guardare al significato (o contenuto emotivo). Questo non era affatto nuovo: io diventai subito frequentatore di Schwitters, Joyce, Helms, i Lettrists e la poesia astratta. »

Oltre a Berio la scuola italiana ha senz’altro prodotto sempre delle eccellenti espressioni, sia dal punto di vista compositivo che teorico. Compositori che vanno da Nono, Bussotti, Sciarrino a Solbiati, Guarnieri, Fedele, Gervasoni per giungere a Lanza, Filidei, Bianchi hanno saputo metabolizzare gli insegnamenti delle generazioni precedenti e dare nuova linfa alla creazione per voce, soprattutto nei confronti del rapporto col testo.
A tal proposito mi piace citare una frase di Nono, che ammetto spesso mi trovo a dover riconsiderare quando mi accingo a lavorare sui miei lavori per voce: “A volte il linguaggio musicale mi induce ad una sorta di stravolgimento del testo. Il testo oltre ad ispirarmi è materiale acustico: deve, può anche diventare pura musica. Altre volte è invece il testo a sovrapporsi al linguaggio musicale.”

Lo spettralismo ha poi mostrato come la voce potesse tuttavia donare nuove possibilità, soprattutto se strettamente legate alla tecnologia. Jonathan Harvey, in Mortuos plango, vivos voco (1980) per esempio, esplora le risonanze fra lo spettro di una campana e la voce bianca. Grisey in Chants de l’amour (1984), composto per coro misto, ha per esempio sperimentato le possibilità di interazione fra varie lingue, e l’oggetto sonoro si dipana attraverso gli armonici naturali della voce, generando una interessante interazione fra elettronica e voce. Sullo stesso piano si pongono lavori di Philippe Manoury (En écho, 1994), Marc-André Dalbavie (Seuils, 1993), fino a lavori più recenti come quelli di Leroux, Romitelli fino alle sperimentazioni di smaterializzazione del timbro di Bedrossian e Cendo.
Uno spazio di particolare rilievo merita il lavoro sulla voce di Aperghis, su tutti andrebbero citate le Récitations, lavoro pioneristico per voce sola. Un ciclo di pezzi basato su una esplorazione organizzata delle possibilità della voce dove il testo stesso diviene teatro vocale, fatto di acrobazie tecniche e micro-drammi vocali spassosi e bizzarri.
Le esplorazioni di Aperghis trovano terreno fertile sulle ricerche della voce, basti citare altri lavori come Six Tourbillons, 14 Jactations, Cinq Calme-plats per rendersi conto di quanto il compositore greco-francese abbia saputo trarre profitto dalle sue ricerche e creare una nuova scuola di pensiero compositivo che ha influenzato una intera generazione di giovani compositori. 
Sulla stessa onda esplorativa appaiono le investigazioni sulla voce di Dieter Schnebel, autore di brani come Maulwerke, letteralmente “opere per la bocca”, o Atemzüge (soffio) dove pone in relazione gesti espressivi che vanno dal buffo ad articolazioni estremamente complesse, una sorta di teatro per la voce e per il corpo fatto di singhiozzi, espirazioni primitive, in articolazioni vocali..Schnebel introduce nuovi parametri nella scrittura vocale, movimenti di lingua e di labbra, micro-intonazioni, risonanza interne; la voce viene trattata essa stessa come attrice all’interno della messa in scena vocale.

Negli anni si è consolidata la tradizione delle cantanti donne che hanno impreziosito in maniera significativa il progresso vocale, basti citare Cathy Berberian che dagli anni 60 è stata simbolo della sperimentazione vocale, alla quale possiamo affiancare Joan La Barbara e successivamente Meredith Monk e Diamanda Galas, per giungere alle esplorazioni jazz di Jeanne Lee e Jay Clayton.
Le avventure pionieristiche di queste splendide interpreti hanno fatto scuola e schiuso orizzonti a giovani generazioni di cantanti e compositori, creando talvolta collaborazioni dai risultati eccellenti.
Sequenza III per sola voce femminile, composta nel 1965 da Berio per la Berberian, segna una fondamentale svolta per la scrittura vocale, la cui esperienza confluisce per certi versi in Stripsody creata nel 1966 dalla stessa cantante statunitense (anche se alcuni stilemi furono anticipati da Aria di John Cage del 1958), valido esempio di come l’elemento melodico potesse esser messo in relazione con l’onomatopeicità della poesia visiva dadaista, futurista e la nascente pop-art di Andy Warhol. 
La visual art, allora ancora in fase embrionale, differiva dal resto delle discipline per la mancanza di una vera e propria storia della disciplina, la conseguente libertà espressiva consentiva di perseguire obiettivi aldilà di ogni ostacolo, radicalizzazione e obbligatorietà drammaturgiche, trovando nel gruppo Fluxus nuovi stimoli e affascinanti risposte. Ne emergerà una allora giovane artista-performer giapponese, al secolo Yoko Ono, che assieme a John Lennon fonderà la Plastic Ono Band, con la quale riuscirà a creare brani di stampo rock/pop composti da elementi primitivisti, avanguardistici e elaborazioni tratte dal teatro Nō giapponese, facilitando il nascente processo di fusione estetica di elementi popolari e sperimentali, visibili ad esempio anche in Revolver dei Beatles e Pet Sounds dei Beach Boys.
Particolarmente vicina all’universo creativo di John Cage, Joan La Barbara ha esplorato anche grazie all’ausilio di indagini psicologico-antropologiche, l’essere voce sulla base di mondi e tecniche esecutive apparentemente diversi e lavorato su una possibile commistione fra essi, senza alcuna remora o priorità stilistica.
Per la multidisciplinare Meredith Monk la voce e il canto rappresentano una profonda ricerca interiore e una incondizionata devozione di sé, “luogo-non luogo” in una disciplinata relazione con le dinamiche del mondo naturale e delle sue manifestazioni.
Molto interessante, secondo me, mettere in rilievo una artista cross-over come Laurie Anderson, che grazie all’elettronica riesce a far divenire la propria voce parte di una coscienza non esteriorizzata nel canto.

Vari sono stati gli esperimenti che hanno segnato in maniera più o meno marcata certe tipizzazioni vocali, la maggior parte delle quali attraverso forme e/o espedienti teatrali.
Alla fine degli anni ‘70 Roger Reynolds porta a compimento Voicespace, un enorme collage di vari comportamenti vocali, fatto di voci processate o campionate, quadrifonico e diviso in 5 parti, basato su frammenti di testi tratti da Issa, Melville, Stevens, Borges, Joyce, García Márquez. In questo lavoro, assolutamente innovativo, vi sono situazioni sonore di estrema visionarietà e gesti figurali che saranno poi riscontrati in compositori delle generazioni successive.
Anche dal teatro intervengono delle innovazione in termini di emissione vocale e tecniche di respirazione. Antonin Artaud attraverso le più disparate estremizzazioni decostruisce il pensiero post-dadaista e futurista trasportando nell’uso della voce l’espressione massima del proprio teatro.
Un altro esponente di rilievo è stato Carmelo Bene, le cui esplorazioni timbriche sulla “phoné” riuscirono a creare delle potentissime risorse vocali. Il massimo risultato è rappresentato dai Canti Orfici.
Un artista che ha marcato ulteriormente il panorama vocale, estremizzando il concetto di tecnica e raggiungendo risultati al limite delle capacità umane è stato Demetrio Stratos, che per vario tempo divenne pupillo di John Cage. Stratos, era fondamentalmente un tenore, con una elasticità unica, che gli consentiva di spingersi da tessiture baritonali a quelle di soprano leggero, oltre ad un ampio repertorio di suoni fischiati, aspirati, appoggiati e fonemi gutturali particolarmente profondi. Ma la peculiarità per la quale divenne noto era la capacità di produrre gli armonici di un suono tramite diplofonie e trifonie. Le sue sperimentazioni lo portarono a metabolizzare la volontà di modernizzare il rapporto fra parola recitata e parlata, indagando nelle pieghe più sottili di ogni suono, dal “pre-vocale” alle più articolate emissioni vocali.
Con il punk hanno fatto capolino espressioni vocali più aspre e meno articolate, esplorazioni che si schiudono a vari effetti di fischi irrequieti per arrivare a grida laceranti e primitivismi gutturali. Fra i maggiori esponenti troviamo Blixa Bargeld, Mark Stewart e Terre Roche, il cui uso del’urlo in Exposure pare quasi un omaggio alle intuizioni di Yoko Ono .
Una moderna sintesi delle innovazioni maturate nel tempo trova risposta nell’equilibrio e nella consapevolezza delle proprie capacità in Bobby Mc Ferrin, un cantante capace di produrre una infinita quantità di timbri e di tecniche esecutive diverse che vanno da salti d’ottava dalla tessitura di basso profondo a soprano nel giro di una frazione di tempo e senza intaccare minimamente l’intonazione a effetti di beatboxing e suoni percussivi emessi con la voce e l’ausilio del petto, utilizzato come cassa di risonanza corporea.
I suoi dischi, a partire da The Voice del 1984 fino a VOCAbuLarieS (2010) sono diventati oggetto di culto e ossessione per molti cantanti, aprendo così gli orizzonti di una nuova scuola di rilievo internazionale, dove l’ideologia vocale è basata su sonorità gradevoli, plastiche, completamente diverse da quelle più aspre di un certo tipo di musica europea.

Parallelamente nascono nuovi fenomeni capaci di dare ulteriori sviluppi alla vocalità contemporanea, ad esempio Phil Minton, David Moss, vocalisti capaci di produrre suoni paragonabili a un campionatore umano, e autori insieme a Jaap Blonk, Koichi Makigami, Paul Dutton di un formidabile disco vocale: Five Men Singing del 2004.
Altra raffinatissima artista, dotata di agilità e potenziale esecutivo sconfinato è Viviane Houle, autrice di Treize del 2009, un disco dove la voce diviene archetipo di possibilità al limite del possibile, portando la voce fino alle più estreme frequenze acute, unendovi una eccellente partecipazione drammatica e colore vocale praticamente unico.
Molto interessante segnalare anche le incursioni nella cultura orientale effettuate da artisti come Roberto Laneri, autore tra l’altro del libro "La voce dell'arcobaleno” dedicato al canto armonico o Amelia Cuni, specialista del canto microtonale indiano, per arrivare al canto difonico di Albert Kuvezin e Sainkho Namtchylak (per chi non la conoscesse vi consiglio vivamente di ascoltarla).
Negli ultimi anni molti sono stati i cantanti e i gruppi vocali che sono emersi, dotati di tecnica sopraffina e visione musicale di alto spessore che hanno contribuito in maniera significativa alla riuscita di molti lavori per la grande duttilità di cui dispongono, penso a Cristina Zavalloni, soprano dalla grande duttilità vocale, capace di affrontare senza problemi la classica, il contemporaneo, il pop, il jazz e la musica etnica.
Vi sono altri esempi di voci duttili quanto esplosive, che hanno dato un significativo contributo alla ricerca e alla sperimentazione di nuove possibilità, fra esse vanno annoverate Donatienne Michel-Dansac, Barbara Hanningan, Alda Caiello, Nicholas Isherwood, Roberto Abbondanza, Luisa Castellani, Monica Bacelli, ai quali si affiancano voci di assoluto valore della nuova generazione come Laura Catrani, Ljuba Bergamelli, Zuzana Marková.
La voce sperimentata in gruppo ha concesso a insiemi vocali di esplorare le più inusitate sonorità, fra questi non si possono non citare i Neue Vocal Solisten di Stoccarda, i VocalLAB di Amsterdam, Le Cris de Paris, gruppi capaci di spaziare dal teatro musicale a brani di estrema complessità.
Andrebbero infine senz’altro considerate le possibilità che oggi vengono concesse dalla tecnologia, dove spesso la voce viene utilizzata in interazione con essa. C’è da considerare anche la metamorfosi che è avvenuta nei confronti dell’ascolto, dove la voce viene spesso filtrata tramite l’uso di microfonazioni e altoparlanti, dove frequentemente è lo stesso cantante ad esaltare le proprie doti attraverso un buon uso dell’amplificazione. Lo stesso compositore poi, può intervenire in maniera alquanto decisiva sulle modificazioni, anche attraversi azioni differite, del timbro e degli effetti.
Di certo avrò dimenticato molti nomi e molti esempi nel panorama contemporaneo e passato, ma quanto raccontato in questo post non voleva minimamente essere un decalogo o un elenco preciso, quanto piuttosto una sbirciata nella storia e nelle potenzialità che hanno marcato l’evoluzione di uno strumento tanto complesso quanto meraviglioso come la voce.

2 commenti:

  1. Raffaele, grazie per il tuo post, che è documentatissimo! Aggiungo giusto quest'altro link, con una performance di Trevor Wishart - forse più conosciuto come come compositore elettroacustico (ricordo il suo Redbird). Ecco : http://www.youtube.com/watch?v=vJaJjja86BU

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  2. Grazie Andrea per la segnalazione di Wishart, che non conoscevo!

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