lunedì 21 ottobre 2013

Musica e Teatro #3



"La strada dell’arte totale è lunga e tormentata…è il punto più alto della pratica scritturale e della stessa riflessione dell’avanguardia e dei suoi labirintici percorsi: il luogo in cui confluiscono l’anima e la forma, il linguaggio e la vita, il silenzio e la parola, l’attesa e la speranza…L’arte è chiamata a rigenerare una condizione d’esistenza frammentata e dispersa, dolorosa. La poesia, il teatro, il Totaltheater, l’architettura, la pittura dovranno interpretare, rinnovandosi nel profondo, questo compito che è piuttosto una missione. Così spetterà proprio al teatro e all’architettura di guidare – diventandone modelli – gli altri linguaggi, la poesia, la musica, la pittura, la danza” 

(A. Trimarco - Opera d’arte totale )


 

Riprendo il filo del racconto da dove lo avevo lasciato. Musica e teatro, un rapporto, checché se ne dica, quanto mai intenso e vitale.
Un legame che nasce dalle tensioni, dalle ricerche, dalle esperienze del nostro vissuto e sta ormai radicandosi con sempre più forza anche nel linguaggio musicale, anche non espressamente scritto a scopi di rappresentazione.
Le moderne prospettive di esplorazione, filtrate attraverso le molteplici sfaccettature della fruizione e della sensibilità odierna, sono venute a determinarsi tramite la costante implicazione di differenti ma contigue discipline, come ad esempio le nuove tecnologie audio/video, le arti figurative, la scenotecnica e il conseguente ammodernamento di tutti i segni fisici e linguistici degli apparati drammaturgici. Ciò ha avviato un processo di riconfigurazione concettuale e intellettiva, oltre che di discussione, sul fine ultimo e sulle potenzialità del teatro musicale, allargando consequenzialmente il discorso a questioni di fondo, per lunghi tratti rimaste pressoché insolute e relative ad una pesante eredità, concernenti il lascito effettivo delle esperienze del ‘900 storico, i cui molti esiti sono risultati particolarmente fruttuosi per la rinascita del genere.
Nelle generazioni di compositori immediatamente precedenti alle nostre veniva posto al centro del dibattito il problema della comunicazione teatrale, basata sulla concezione e ideazione di uno spazio visivo estremamente complesso, in funzione di drammi non raccontati ma solo tracciati in parte o intuibili nel decorso stesso della storia, molto spesso basati più sulla fantasia intima e personale dello spettatore che su quella della medesima opera.
Nelle esplorazioni delle nostre generazioni vi è stata sempre di più una presa di coscienza della componente teatrale/visuale in funzione della storia, questo senz’altro grazie alle molteplici possibilità offerte dai mezzi moderni; in questo senso la consapevolezza degli autori a noi contemporanei risiede, molto probabilmente, nella non riduzione della componente “spettacolo” a sola e cruda sperimentazione di linguaggi e strumenti espressivi condensati in una sorta di “teatro-catalogo” di effetti spettacolari, quanto piuttosto nell’impiego, sempre più funzionale e autonomo, di tutti gli artifici conosciuti e quelli in fase di scoperta, creando i presupposti per una proiezione massimale delle possibilità immaginifiche dell’apparato teatrale, il che consente anche, secondo me, un risveglio educativo del fruitore, trovandosi egli stesso spettatore capace di interagire, e reagire, in modo creativo e consapevole nei confronti dell’opera.
Per certi versi, in molti autori, è perpetrato quel legame, saldissimo a dire la verità, fra una concezione del teatro radicalmente astratta e il contesto musicale contingente, identificabile con un percorso di ricerca che, partito nell’immediato dopoguerra, ha portato il pensiero musicale, dopo l’esempio weberniano, ad una categorica intransigenza progettuale e costruttiva del comporre.
Lontani da quel rigore, lentamente appassito nella filigrana del tempo in favore di una visione globale della musica molto più “openminded”, risulta oggi interessante notare come scrivere per il teatro riscuota un sempre crescente entusiasmo, basta vedere le programmazioni dei maggiori festival (anche italiani) per accorgersi di come anche le istituzioni puntino fiduciosamente sull’esplorazione dei nuovi intrecci teatro/musica/tecnologia per favorire l’avvicinamento del pubblico alla sempre più isolata condizione della musica contemporanea. Anche per questa tendenza o per meglio definirla “voglia di comunicare”, si assiste sempre di più ad una sorta di spettacolo nello spettacolo, esigenza espressiva nata con Kagel (di cui già parlai la volta scorsa) e che molti compositori di oggi, vedi Heiner Goebbels, Michael Van der Aa, Helmut Oehring, Lucia Ronchetti, Elena Mendoza, Simon Steen-Andersen, studiano e mettono in atto nelle loro composizioni, dei gesti performativi, teatrali e visuali, che esulano dal solo contesto concertistico per approdare a miscele stilistiche quanto mai fresche e originali, senz’altro grazie anche alla fusioni di stili compositivi e linguaggi, sfociando spesso in espressioni tipiche della musica pop o rock, accattivando in questo modo anche l’attenzione di un pubblico meno specifico e forse anche finalmente più aperto e interessato alle nuove correnti musicali.

Particolarmente interessante trovo il lavoro di Goebbels, basato sulla commistione di elementi di variegata provenienza (fino a giungere al jazz o al pop), il quale spesso condensa le sue idee intorno a testi letterari dai quale trae nuove ed intrinseche potenzialità armonico-sonore, grazie anche ad organismi ritmici e timbrici estremamente vitali, vedi ad esempio Stifter Dinge una sorta di teatro senza attori, con cinque pianoforti in scena e dove l’elemento suono è il vero protagonista, per usare le sue parole: "una composizione per cinque pianoforti senza pianisti, una rappresentazione teatrale senza attori, una performance senza performer, in pratica un no-man show", oppure altri lavori ormai divenuti storici come Surrogate Cities o Eislermaterial.
Di efficace rilievo è anche l’attenzione che ripone sull'uso delle immagini e del video, a volte elevato quasi a simulacro del teatro, come ad esempio in Eraritjaritjaka - Musée des phrases, su testi di Elias Canetti, dove i personaggi in scena nel decorso della storia ad un certo momento escono dal teatro e, camminando per le vie della città, proseguono l'esecuzione dell'opera, mentre il pubblico in sala continua a seguire le loro gesta attraverso le immagini riprese in video.

Nella medesima direzione si rivolge anche il pensiero di Michel van der Aa, come ad esempio in One, opera dal carattere psicotico per voce e interazioni multimediali, Up-Close, concerto per violoncello e orchestra d’archi che implica l’interazione del video con una vera e propria storia e gesti performativi da parte del solista, o soprattutto come After life, opera basata sul film del regista giapponese Hirokazu Kore-Eda, dove i protagonisti, bloccati in una stazione di passaggio a metà strada fra la vita terrena e quella eterna, devono individuare una fondamentale situazione della loro vita passata per accedere a quella futura. Il percorso musicale attuato da Van der Aa aderisce pienamente a quella che è la vicenda scenica, attribuendo quel ruolo intermediale al fatto meta-teatrale e ponendosi più di una volta in dialogo con esso, attuando una sorta di viaggio della memoria musicale, interagendo efficacemente con tutto l’insieme delle risorse tecnologiche messe in atto. Soprattutto l'impiego del video, proiettato su vari pannelli disposti in vari punti del palcoscenico, a mio avviso, risulta essere una eccellente trovata per simulare l'intermediarietà di tale condizione esistenziale.

Trovo che questo approccio alla musica sia particolarmente efficace, in quanto credo che stimolare le varie proprietà sensoriali di cui disponiamo, sia un modo moderno di fare teatro e spingendo verso questa direzione potrebbero sempre di più aprirsi dei percorsi artistici totalmente inesplorati. Un teatro sensoriale, totale, completo in ogni sua componente, che possa per certi versi riprendere alcuni degli stilemi architettati da Walter Gropius e Erwin Piscator, o addirittura, modernizzando i concetti secondo la nostra attuale sensibilità, di Artaud, il quale sosteneva fortemente l'idea di "spettacolo totale", dove il teatro potesse fondersi con altre forme parallele, quali il cinema, la musica, o addirittura il circo e elementi della vita stessa. Una visione che all'epoca scosse profondamente il modo di concepire e di fare teatro, la cui eredità è stata presente e attiva per gran parte del '900, e che, molto probabilmente, perfino ai giorni nostri risulta carica di vive tensioni.
La combinazione di più discipline, anche estremamente diversificate nelle intenzioni, in un unicum artistico, potrebbe in qualche modo determinare una sorta di frattura con quegli ideali di incoerenza, di frammentazione, di disarmonicità, di incomunicabilità, che hanno regnato nelle espressioni artistiche del passato e che richiamano a quell’idea, per dirla alla Simmel, di “cornice” ("la cornice non può mai presentare nella sua configurazione una breccia o un ponte, attraverso i quali il mondo possa, per così dire, penetrare nel quadro, o il quadro possa uscire nel mondo").
Il teatro musicale potrebbe dunque divenire un'arte sempre più potente, intermediale e sinestetica, nella quale immaginazione, sogno e memoria divengono teatro della realtà, nell’alchimia della parola, del rapporto umano, dell'oggi. Potrebbe sempre più aprire le proprie porte alla nostra sensibilità e scuotere quelle che sono le capacità di fruizione e comprensione dell’essere umano.
In questo senso, anche la critica potrebbe aprirsi maggiormente e trarne beneficio in termini di freschezza intellettuale, o magari, finalmente, subire un processo, necessario, di svecchiamento culturale.

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