lunedì 27 maggio 2013

Filippo Perocco - Studi per violino

Con questo post inauguriamo un cambio di modalità nel blog: proviamo a accantonare il sistema dei semafori, per cercare di parlare di un numero maggiori di brani (date un'occhiata alla pagina /nu/list). L'obiettivo è sempre parlare di ciò che ci piace o ci ha colpito, e segnalarvelo, e discuterne.

Oggi vi propongo alcuni studi per violino solo di Filippo Perocco, che ho sentito recentemente dal vivo all'Istituto Italiano di Cultura di Parigi, suonati da Marco Fusi. Il lavoro mi ha sinceramente colpito: tornato a casa, l'ho cercato su internet per proporvelo, trovando solamente il filmato che vedete poco più in basso. Non gli rende giustizia; non tanto per una questione di esecuzione (è sempre l'impressionante Marco Fusi che suona nel video su Youtube, benché ho la sensazione che nell'esecuzione di Parigi i pezzi fossero "maturati" – il che è abbastanza naturale), piuttosto perché credo che questo brano rientri nel novero di quelli che fanno vibrare qualcosa di speciale dal vivo, altrimenti la magia un po' si perde.




Sin da quando studiavo in conservatorio, ho sempre trovato estremamente difficile scrivere per violino solo, e ho sempre ammirato chi lo faceva. Trovo difficilissimo centrare il punto, e non lasciare un alone di estemporaneità. Anche quando l'estemporaneità è premeditata e ben cucita (come nella Toccatina di Lachenmann, ad esempio – e prendo un mostro sacro che ammiro), mi rimangono sempre molti dubbi; quando l'estemporaneità diventa ipervirtuosismo (paganiniano o post-paganiniano), il fastidio diventa noia. Di pari passo: sono sempre stati rarissimi i casi di brani per violino solo che mi hanno colpito davvero. In principio, da piccolo, c'era solo Bach. Dopo Bach, il nulla. Poi, durante gli studi in conservatorio, ho scoperto i capricci di Sciarrino, con conseguente infatuazione. Dopo Bach, Sciarrino (che per me aveva un po' il valore di un "dopo Newton, Einstein"; esageravo). Poi, in tempi recenti, ho scoperto le belle sonate di Ysaÿe. Ultimamente i brani che mi piacciono stanno aumentando; il concerto all'Istituto Italiano di Cultura è stato complessivamente davvero un bel concerto. Era ignoranza e immaturità; ma forse anche questo è il bello di scoprire nuove cose. (O invece è allascamento dei miei gusti di adesso?)

Gli studi di Filippo Perocco dal vivo sono ammalianti. C'è un che di sciarriniano (e lachenmanniano, a tratti), certo, ma c'è anche uno sguardo decisamente personale. Il terzo, in particolar modo, mi pare il più sincero e il più bello: la semplicità del gesto di pizzicato si unisce alla melodia ripetitiva e semplice. Quasi un blues. Che allora mi riporta alla mente quest'altro piccolo blues, per violoncello amplificato, che mi sembra un piccolo gioiellino, fatto di niente eppure così solido. Magari un giorno proporrò di parlarne più diffusamente.

Invece gli studi di Filippo sono fragili, fragilissimi, e in questo sta anche la loro bellezza. In un certo senso, questa è anche la ragione per cui dal vivo ammaliano, mentre nel filmato Youtube passano molto meno. Nella versione parigina Marco Fusi ha abbreviato i silenzi (specialmente nel terzo studio), e ha fatto benissimo. Ha anche reso molto più discreto l'utilizzo dei coristi (che il musicista deve suonare in alcuni momenti), e ha pure fatto benissimo, togliendo ad essi lo status di "trovata", e facendoli diventare puro riverbero timbrico. (Nella versione parigina, c'era anche un nuovo – quinto – studio, secondo me il più debole, o forse solamente il meno "maturato".)

La faccenda dei coristi potrebbe aprire una riflessione sui brani per strumenti e voci che utilizzano accessori e utensili vari. In estrema sintesi, mi sembra ci siano due modi per spingere strumenti e voci a far di più di ciò per cui sono stati concepiti secoli fa: esplorarli (come per Lachenmann o Billone, giusto per citare due esempi) o giustapporgli altri strumenti (da cui la tromba che suona nel pianoforte nella sequenza di Berio, o il violino che suona con i coristi, appunto). (Ce ne sarebbe un terzo: nell'era del digitale, una vera nuova liuteria "analogica", che fabbrichi una nuova famiglia di strumenti… Oggi non vedo nulla di tutto questo, ma se invece c'è in giro un nuovo Adolphe Sax, segnalatemelo!) In ogni caso per ciascuna delle due vie gli esempi sono innumerevoli, e si raccolgono intorno a parole come "timbro" e "risonanza", oppure "gesto" e "teatro". Però questo si ricollega in parte al discorso che Eric faceva nel post su Rebhahn: se non seguiamo nessuna delle due strade, siamo tutti conservatori? Lo siamo se scriviamo per pianoforte non preparato, o per una cantante che non suoni anche qualche piccola percussione assortita? (O siamo conservatori a maggior ragione quando queste percussioncine le utilizziamo?). Ma allora, l'unica soluzione non dovrebbe essere l'elettronica pura, e tutto il resto un semplice spostare il conservatorismo un po' più in là? Non lo credo; ma è solo l'abbozzo di una provocazione spicciola che nasconde una preoccupazione sincera.

4 commenti:

  1. Grazie Daniele per averci fatto conoscere questi lavori di Filippo! Il termine che mi viene in mente quando li ascolto - e soprattutto vedo - è "apertura" e "ricchezza". Forse anche un briciolo di sinestesia: ascolto il movimento del violinista e vedo il suono che egli produce; le due dimensioni si incrociano in quei pizzicati, o in quelle strappate dell'archetto.. peccato non averlo visto dal vivo, ma credo che tali elementi passino lo stesso anche attraverso il video! E, magari tentando una risposta - o forse l'inizio di una nuova domanda - al tuo pensiero finale, potrei forse dire che il conservatorismo o il "visionarismo" (perdonate l'orrendo termine) non dipendono dal mezzo in sé, ma da altro... che ovviamente ora non saprei afferrare, né definire... a volte si classificano i pezzi come "sguardo in avanti", oppure "sguardo all'indietro"... ma credo che ci sia anche il fattore che gli abbraccia entrambi, e che forse è un elemento bipolare, o molteplice...; forse il vero interesse è vedere come un pezzo possa aprire finestre, sia capace di fare gettare occhiate a qualcosa che può essere possibile, che potrebbe esistere al di là del mezzo impiegato e dello suonare bene di un lavoro... qualcosa che è in grado di farci vedere attraverso il qui ed ora senza negarlo. Ecco, forse è questa l'apertura, e forse Filippo ce ne ha trasmesso un poco.... (tbc)

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  2. Caro Daniele, grazie per la segnalazione: hai ragione, sono molto belli. Ti vorrei porre una domanda sulla tua riflessione sugli strumenti di cui hai scritto nel post: non pensi che oggi la costruzione di iperstrumenti, ormai in una fase non più primordiale, possa essere diventata una nuova forma di liuteria? Sto facendo riferimento ad esempio al feed drum di Lupone, uno strumento molto raffinato, in cui materiale elettronico e acustico si potenziano a vicenda. Probabilmente sbaglio, ma ho come l'impressione che l'estetica postdigitale, o post-elettronica, che ne costituiscono il fondamento, possa essere cruciale nella concezione dello strumento del futuro. O no?

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  3. Caro Giacomo, hai ragione:
    Però vorrei capire precisamente che cosa intendi con iperstrumenti. Io lo intendo in tre diversi significati:
    - controller puri, come il Karlax. Interessanti da un punto di vista performativo;
    - la strada mista non mediata, quella in cui davvero acustico e elettroacustico si potenziano, come nel feed-drum di Lupone. A questo proposito devo confessarti che ho avuto modo di vederlo solo una volta dal vivo, a Lione: la vibrazione continua, i timbri e gli armonici che escono sono a tratti "magici". Mi sembra una prospettiva interessante, però mi piacerebbe vedere questa simbiosi elettronico/acustico applicata a una liuteria del timbro e non una liuteria del suono (intendo dire una liuteria che parli primariamente di altezze, o quanto meno che parli di note o simboli, in qualche senso). Qualcuno lo ha certamente fatto quando ha messo dei pickup e un jack in uscita alla chitarra o a un violino (non è la stessa cosa, ma...). Quali sono le altre prospettive in questa direzione oggi? (Davvero non lo so)
    - oppure allora arriviamo alla strada mista mediata: l'elettronica in tempo reale con capteurs di gesto, telecamere per tracciare i movimenti, descrittori per tracciare il risultato audio, score follower... Tutto questo ha bisogno di passaggi in più per integrare acustico e elettronico (lo si chiama tempo reale; forse è "falso" tempo reale? :-) Un problema, per nulla secondario, è la diffusione, ma ci sono tante belle strade che si stanno aprendo oggi...

    Sono riflessioni e domande che rivolgo prima di tutto a me stesso, e non sono in nessun caso giudizi di valore. Tutte queste strade infatti mi sembrano interessanti (ce ne sono altre che forse a un primo acchito dimentico). Al momento, e del tutto personalmente, mi pare che la seconda lo sia di più: e però non vedo nessun esempio che mi spinga a pensare che c'è una vera liuteria (nel senso appunto di un feed-qualcosa che abbia più potenzialità di una membrana, e non me ne vogliano i grancassisti, sono cosciente che è già uno strumento potentissimo... e allora cerco di dirlo diversamente: la feed drum è probabilmente un ottimo strumento per "cercatori di suono", io vorrei invece a una liuteria che possa avere una più ampia diffusione)... Non so, tu che ne pensi?

    Sull'epoca post-elettronica, hai assolutamente ragione. Infatti la seconda strada è probabilmente quella che cerca di ridurre il più possibile la concezione classica dell'elettronica come "a posteriori" e che "segue" ciò che accade nella parte acustica. Mi sembra tra l'altro anche la più ergonomica, a medio termine.

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  4. Caro Daniele, si, è vero, il termine iperstrumento comprende una fenomenologia ampia e variegata. E qualora si aprisse l'ambito anche alle sculture sonore si avrebbe a che fare con centinaia e centinaia di strumenti diversi (pensa anche solo agli anni Sessanta, dalle sculture sonore di Joe Jones al TVCello di Paik, usato anche in contesto performativo, a innumerevoli altre sperimentazioni). Si tratta di una questione che desidererei molto approfondire, ma che non conosco, e, di conseguenza, le mie idee a riguardo sono poche e confuse… Ad esempio, non so se strumenti come il trombone di Collins, che adopera la tecnologia elettronica e digitale come "strumento" e sfrutta alcune proprietà fisiche del trombone (non solo come controller, ma anche la sua irradiazione, etc.), o l'optrum di Atsuhiro Ito, in cui il neon "eseguito" genera direttamente il suono (peraltro oggi è entrato anche nella cultura popular attraverso i suoi duetti con i Diamond Version), possano essere considerati all'interno di quella che hai individuato come "strada mista non mediata".
    La tripartizione che proponi è interessante, e mi convince. La seconda categoria è in effetti la più complessa, in quanto richiede sia un'ottima conoscenza delle proprietà fisiche degli strumenti sia una forte idea estetica; ma, nonostante la complessità credo anch'io che sia la più promettente. Anche grazie alle potenzialità tecnologiche apertesi negli ultimi anni. Per quanto concerne la possibilità di diffusione ampia degli iperstrumenti è un argomento sul quale la mia opinione non ha alcun valore; in linea di massima, però, non credo che tale possibilità sia legata solamente alla presenza di altezze, o alla strutturazione per timbri e non per suoni, quanto alla possibilità di creare uno standard e di commercializzarlo, attraverso la definizione di un brand che abbia determinati caratteri identitari e valoriali spendibili nella società odierna (se persino il didjeridoo negli anni Novanta è diventato di moda…). Per questa strada però si entra nel marketing e io proprio non ne capisco nulla. Grazie comunque molto per le lucide riflessioni!

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