lunedì 15 aprile 2013

Gesti #2

Al termine del post pubblicato poco tempo fa ho posto alcune domande in merito al ruolo del gesto nel tempo musicale, in ciò che chiamiamo forma, e di un suo possibile senso nel fare compositivo.

Quest'ultima mi sembra la domanda chiave, quella che dà senso a tutto il resto. Altrimenti detto: c'è davvero bisogno del gesto per comporre?

La risposta non la conosco. Posso azzardare dicendo che non è così importante... migliaia di compositori lavorano attraverso elementi e strategie diverse, lo sappiamo bene: dialettica, ritaglio, campi armonici, ironia, ibridazione, saturazione, formalizzazione, alea, anti-retorica, lavoro, e via così. Ognuno di tali termini può dire qualcosa di quell'oggetto verbalmente sfuggente che scriviamo con le note e ascoltiamo con le orecchie, e del modo col quale ci rapportiamo ad esso.

Probabilmente anche il gesto rientra in tale discorso. Per qualcuno può essere importante, per altri niente affatto. Per coloro che vi hanno a che fare si apre una pletora di definizioni diverse di ciò che è o non è gesto, e che costituiscono un insieme ben poco coeso – e ne ho citate alcune all'inizio del post precedente. Tutte sembrano avere bisogno di qualcos'altro per possedere un senso.


Per chi accetta che la composizione sia uno scolpire il tempo – così almeno penso – allora forse il gesto ha senso perché ne abbraccia una parte e lo caratterizza in un certo modo. Ma non sono proprio sicuro di questo. Mi sembra che la musica sia fatta anche di altre cose.

Se volessi muovere una critica a quanto sto scrivendo in questi post – e si veda la fine dell'ultimo – dovrei sostenere questo: è già stato detto troppo.

Francamente, a volte vedo un grosso pericolo nel dare un nome alle cose. Come Adamo, che battezza le creature che Dio gli pone davanti - “così sarà il loro nome” o qualcosa del genere, e sulle quali ha “il potere di decidere”, così diamo anche noi dei nomi alle cose – musicali. Lo possiamo fare, in sé è una cosa buona. Ma nominare significa possedere, e se il possesso degenera diventa una forma malata di protezione, o di sclerotizzazione, o di idiosincrasia. Si rischia l'eccessiva fissazione, oppure si dà lo stesso nome a cose completamente diverse, negando loro la propria specificità; ed è una forma grave e quasi incurabile di cecità.

Dire “questo pezzo non ha” non ha alcun senso. Forse si può tentare di dire “questo pezzo è”. Ma forse è meglio dire “questo pezzo parla”.

Probabilmente sono uscito fuori tema. Ho abbandonato la discussione sull'argomento principale per gettare uno sguardo su qualcos'altro, che ultimamente mi sta a cuore: la discrepanza fra l'essenza dell'oggetto e l'etichetta che gli viene data. Il che può generare mostri.

Chissà, magari avremo occasione di rifletterci ancora insieme in un prossimo post.

Rimane però quella prima ed ultima domanda, che mi pongo molto spesso, ma che ho quasi sempre timore di affrontare. Ho davvero bisogno del gesto?

5 commenti:

  1. A me pare che non si sia ancora usciti, per certi versi, dall'iperintellettualismo applicato alla musica di ricerca, forse inaugurato da Adorno. Come se non si potesse fare a meno della riflessione filosofica per "nobilitare" la composizione. Come se da allora l'accento fosse sbilanciato verso il piano poietico, in una sorta di spocchioso disinteresse verso l'ascoltatore, compreso il compositore che ascolta ciò che compone. Per cui alla fine l'ascolto di un pezzo diventa più che secondario rispetto alla sua struttura, ai riferimenti ad altri compositori, etc., Forse la musica di ricerca deve fare questo per sopravvivere, lasciando gestire l'ascolto al versante jazz/pop/rock? La musica di ricerca insiste ancora ossessivamente sulle dissonanze e l'ascolto è ancora e spesso faticoso, noioso e forse inutile. L'ascoltatore come tale sembra non sia più previsto, dovendo lui o lei essere un fine analista, in grado di individuare tutti i gangli della struttura e le loro relazioni, interne e esterne, traendo da questo il "piacere" (concetto ormai estraneo alla sensorialità) o l'interesse intellettuale verso ciò che il colto compositore gli propone.

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  2. Ciao AntiTheodorW, condivido la tua critica ad Adorno. Credo che per fortuna la maggior parte delle nuove generazioni lo vedano come un approccio datato. In ogni caso, la "musica di ricerca" ha spesso contribuito a emancipare elementi interessanti ("dissonanza", ”rumore", qualsiasi cosa significhino, sono solo una piccola parte). Ma capisco l'oggetto della tua critica: l'iperspeculatività. Ce n'è di buona e di cattiva, credo. Quella buona ha l'ambizione che astrarre significhi universalizzare e ha l'utopia che tali procedimenti abbiano un corrispettivo percettivo (se non ce l'hanno, li cambia di modo che l'abbiano, per non perdere il contatto con l'ascolto). Quella cattiva se ne frega. Ma in ogni caso vedo nella musica d'oggi anche molte cifre opposte. L'attenzione al timbro, ad esempio, che oggi permea una parte per nulla trascurabile di quella che chiami "musica di ricerca", è se vuoi l'esatto contrario: fa dell'ascolto la sua ragione fondante. (Che quest'ascolto possa diventare lui stesso iperspeculativo, è un'altro discorso…)
    In ogni caso la trappola in cui non vorrei cadere è pensare che "musica di ricerca" sia qualcosa di incomprensibilmente avulso dal piacere sensoriale… "Musica di ricerca" era il Sacre du Printemps!

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  3. Ciao Andrea. Mi ci trovo molto spesso a pensare al gesto. Io l'ho sempre un pò riufiutata come nozione perché per un momento mi sembrava una idea pass par tout. Poi si compone e ci si rende conto che i gesti sono anche cose che non sembrano gesti, ma magari sono movimenti o più semplicemente senso. Una nota segue l'altra e tante note fanno delle unità che possono essere gesti, o frasi o chissà. Dici bene quando sottolinei il pericolo di dominare per controllare. Fare poesia è in bilico fra tutti e due. Controllare un territorio ma sentire l'angoscia di tutto ciò che non si controlla, angoscia o anche piacere. Questo mi fa pensare all'educazione dei sensi alla quale i musicisti o amanti di musica si sottopongono. Il nome diventa un modo per indicare una sensazione, un modo per osservarla, conoscerla e conservarla. E' un pò il piacere della rappresentazione interna, o del "teatro della memoria" che gioca da solo su una costruzione musicale. (tbc)

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  4. "... par la transivité universelle des formes, notre civilisation techniuqe essaie de compenser l'effacement de la relation symbolique liée au gestuel traditionnel de travail, de compenser l'irréalité, le vide symbolique de notre puissance. (J. Budrillard, Le système des objets)

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  5. Ciao Eric. Attraverso il gesto accendo l'immaginazione, e probabilmente è un punto di partenza di cui in seguito posso (o voglio) dimenticarmi. (tbc)

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