martedì 11 settembre 2012

[di-vul-ga-'tsjo-ne]


Qualche mese fa è apparso sul Guardian questo articolo: http://www.guardian.co.uk/music/2012/apr/26/five-myths-contemporary-classical-music

Ho iniziato a leggerlo con scetticismo, dicendomi che di solito questi sforzi divulgativi si rivelano qualunquisti, grossolani e disinformati. Proseguendo la lettura, mi sono ricreduto e vorrei spiegare perché.

Faccio un passo indietro. C'è un nodo che viene costantemente al mio pettine: di che cosa parlo quando dico musica contemporanea? Sono sempre più convinto che l'unica definizione possibile sia, più o meno, "la musica che si sente nei festival che si dicono di musica contemporanea". Ma è difficile negare che la musica che rientra in questa definizione mostri alcuni tratti tecnici, stilistici e concettuali comuni che ne fanno in qualche misura, operativamente, un genere o almeno una famiglia di generi musicali.

Allora ho sentito dire che la musica contemporanea dovrebbe diventare musica di massa. Non ci credo. La musica contemporanea in generale non fa ballare, non fa cantare, non fa piangere, non fa rilassare, non fa pregare: che sono, mi sembra, i principali usi che la gente fa della musica, in tutto il mondo, da quando esiste l'umanità. C'è stato all'inizio del ventesimo secolo un momento fortissimo di negazione in cui tutte queste funzioni sono state rifiutate. Ne abbiamo ottenuto una musica astratta, che usa parole difficili per dire cose difficili, il che può piacerci moltissimo ma ne fa per forza di cose un oggetto per pochi, come d'altra parte una certa parte del cinema e della narrativa.

Però vediamo tutti benissimo che quel cinema e quella narrativa hanno un pubblico smisuratamente più vasto della musica contemporanea, e qui c'è un problema: perché mi rifiuto di pensare che chi ha gli strumenti culturali e la curiosità intellettuale per godere di Kubrick e Joyce possa poi ritrovarsi spiazzato davanti a Ligeti o Grisey. Non ha senso.

Negli ultimi decenni (non era così negli anni '60 e '70) si è instaurato un circolo vizioso per cui si sente sempre meno musica contemporanea, se ne parla sempre meno e la si conosce sempre meno. E allora c'è un bisogno disperato di giornalisti come questo signore del Guardian che, con piglio un po' generalista ma in maniera arguta, informata e intrigante, cerca di spiegare - non a tutti, ma almeno a chi legge la terza pagina, che è già una selezione - perché certa musica esiste e che cosa ci si può trovare.

C'è una posizione che traspare già dall'inizio dell'articolo ed è poi dichiarata apertamente, e che mi piace moltissimo: non viene mai messo sul piatto l'argomento bigotto per cui la musica contemporanea è musica classica che si è un po' adattata ai tempi, che è un discorso tipico di molta maldestra divulgazione in cui incappo regolarmente, che taglia fuori le esperienze più nuove, radicali e illuminanti e che confonde e limita l'ascoltatore, inducendolo ad appigliarsi al già sentito e a prediligere la musica che gli offre ciò che già conosce. E che poi, in ultima analisi, fa sì che troppa musica che sento sembri, secondo i casi, Chopin stonato (pezzi per pianoforte), Brahms stonato (musica da camera), Star Wars stonato (orchestra). E allora mi piace moltissimo l'enfasi che viene posta sull'ascoltare con mente aperta il mai sentito; e mi piace moltissimo la storia su Ravel, Varèse e i bambini - non che Varèse sia musica contemporanea, mi sarebbe piaciuto di più che nel racconto apparisse Xenakis o magari Lanza, ma rende l'idea lo stesso. Questo è l'atteggiamento intellettuale di cui abbiamo bisogno.

Mi piacciono altre cose in quest'articolo. Mi piace che si rivolga manifestamente a un pubblico più avvezzo al pop che alla musica classico-romantica europea: perché è il pubblico che cerca il nuovo, che si chiede che musica è uscita nel 2012 e come essa parli del nostro tempo e al nostro tempo: mentre l'ascoltatore esclusivo di musica classica ha già deciso che la musica è finita col Sacre (incluso o escluso secondo le inclinazioni) e difficilmente sarà aperto e interessato a qualcosa che abbia a che fare con l'oggi. Mi piace come non dica mai che "la musica contemporanea è strutture rigorosissime", perché sarebbe antiquato e soprattutto confonderebbe un mezzo (non ubiquo) con un fine (non sempre interessante). Mi piace che si ponga il problema della rilevanza culturale della musica contemporanea, e della sua percepita vecchiezza. Sono tutti temi che ci riguardano direttamente, drammaticamente.

Promosso a pieni voti, allora? No, e non c'entra il fatto che non mi piace John Adams. Quello che mi turba un po' è che vengono presentati solo compositori della vecchia guardia, se non addirittura antichi, e si rischia di formare l'opinione che non ci sia in giro nessun trentenne che faccia musica interessante, dirompente, importante: l'opposto di quello che vorrei sapere, da lettore di questo articolo. Non serve scavare nell'underground, le nuove superstar ci sono, Bruno Mantovani, Ryan Carter, Stefan Prins. Ancora una volta mi piacciono, non mi piacciono, non importa: o si dice al mondo che la musica contemporanea non è morta, o tutto questo è inutile.

E allora bisogna solo sperare che anche dalle nostre parti, nelle foltissime e spesso ottime pagine di cultura dei nostri giornali, a qualcuno venga in mente che esiste un mondo oltre Einaudi e Allevi. Probabilmente sta a noi accendere la miccia.

4 commenti:

  1. bravo Andrea...mi è molto piaciuto questo post, non solo perchè affonda il coltello su temi che spesso si tendono ad offuscare in favore di un atteggiamento "restio a mettersi in gioco" ma per la profondità nell'eviscerare alcune delle enormi falle che permea la nostra epoca.
    Ed hai ragione tu, molti credono che la musica si sia fermata con la Sagra, altri addirittura molto prima. Mi/Vi chiedo, sta a noi sul serio accendere la miccia per un'ipotetica rivalutazione della giovane musica? E se si come?
    Questo blog nacque proprio con l'intento di divulgare, e far conoscere quella parte della musica definita "contemporanea" (termine che a me inizia a dare molto sui nervi) che più ci piaceva, ci stimolava. Eppure si fa sempre più fatica a trovarne, abbiamo sotto gli occhi, anzi nelle orecchie cattivi esempi che crescono a dismisura, e non parlo di Einaudi o Allevi, ma di compositori che hanno generato e che continuano a farlo, una sorta di circolo vizioso da dove oramai la musica fa fatica ad uscire. Troppi stereotipi sono radicati saldamente alle fondamenta. Troppe poche le novità. Ci manca forse inventiva? Fantasia? O forse come dicono molti "professoroni" è stato scritto tutto oramai?
    Proprio l'altro giorno leggevo su un un vecchio libro di storia della musica di quante novità artistiche ci fossero state nei primi 50 anni del '900, facendo un paragone con le nostre generazioni mi sono tristemente accorto di quanto invece sia stato povero il retroterra sul quale siamo cresciuti. Questo mi provoca rabbia. Ma allo stesso tempo stimoli nuovi, che non so ancora bene dove far convogliare.
    Ad ogni modo ritengo che in generale la critica e molti dei mezzi mediatici hanno avuto troppo spesso un ruolo devastante sull'opinione pubblica, e non mi scandalizzo ormai nel vedere un Allevi qualsiasi ricevere commissioni da enti importanti, ma piuttosto nel vedere di quanto flebili e isolate siano le reazioni a certi scempi pseudo-culturali.

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  2. Ciao. Condivido completamente quello che dici e in buona parte anche l'articolo del Guardian. Mi fa piacere sapere che un giornalista ponga questi argomenti su testate cosi popolari. E' vero, ci sono le superstar di oggi, ma penso che in qualche modo la musica colta esista, anche se può essere non solo la "contemporanea" ma anche la "pop": insomma, non é una differenza di genere ma di fattura.

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  3. Inizio dalla fine: sta a noi accendere la miccia.
    Qualche giorno fa sono stato ad un concerto di musica contemporanea (ops!) e ho letto le presentazioni dei brani.
    Ecco, vorrei tirare le orecchie a qualche giovane collega, perchè non si possono leggere delle presentazioni più complesse e incomprensibili del pezzo. Per cui la prima critica andrebbe fatta a chi la musica la scrive: perchè una composizione non è un agglomerato di serie di note o a moduli di ritmi sovrapposti. Detto così io non ne capisco di più (e sono compositore). Certo, poi c'è l'esperienza dell'ascolto, ma tra ciò che la mia mente ha già elaborato e ciò che le mie orecchie ascoltano c'è un divario. Figurarsi se l'ascoltatore non è un conoscitore del genere: si rischia una situazione come quella di Alberto Sordi.

    All'articolo di Andrea mi sento di dire: la musica di oggi non fa piangere, non fa pregare, non fa ballare, non fa cantare.
    Però la musica del passato faceva tutto questo. Che strano, è saltato qualcosa nel meccanismo? Facciamo della musica da tenere in bacheca, come quei bicchieri di cristallo che non si usano mai e rimangono lì a riempirsi di polvere?

    Io sono convinto che la musica sia linguaggio, e quindi comunicazione: la musica deve dire qualcosa. Altrimenti è del tutto simile ad un esperimento scientifico (uno studio sul suono... uno studio sulla struttura...)

    Per quanto le provocazioni dell'articolo del Guardian possano essere più o meno accolte, secondo me nascondono almeno un 20-30% di verità.

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  4. Ciao! Sono d'accordo sulle presentazioni. A volte sono orribili, in particolare le mie. Sul fatto che non faccia piangere ne altro non sono invece d'accordo che significhe che non sia un linguaggio. La musica contemporanea si sposta su sentimenti più complessi, come molta musica romantica: a qualcuno Beethoven fa piangere o ridere? A volte magari la mus. cont. non fa ridere, ne piangere, ma fa c. (:

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