lunedì 25 giugno 2012

Paolo Aralla - Caduceata Region

Paolo Aralla, nato nel 1960, appartiene a un'altra generazione rispetto a noi, più giovani di 15, 20, quasi 25 anni: è stato tra l'altro mio insegnante di composizione, il che mi pone semmai in un rapporto filiale con lui - e rischia di impedirmi di essere imparziale. Suoi circa coetanei sono invece Fedele, Francesconi, Gervasoni, Solbiati, compositori che oggi nel bene e nel male rappresentano l'establishment della musica contemporanea italiana e che - senza nulla togliere alle loro individualità - condividono in maniera credo innegabile un terreno stilistico comune, una morbidezza ultima di chi è cresciuto con Berio, ha avuto Murail per fratello maggiore ed è rimasto folgorato sulla via di Damasco da Benjamin, ma sto ovviamente semplificando.

Il lavoro di cui voglio parlare è Caduceata Region, ciclo di tre pezzi per pianoforte scritti tra il 2009 e il 2011. Come al solito non mi interessa descriverlo dettagliatamente, ma piuttosto provare a spiegare perché sento che merita attenzione.


La prima cosa che mi colpisce è la volontà direi gridata di uscire dal terreno stilistico che dicevo sopra, per cercare verità meno confortevoli ma anche per guardare, con più passione che nostalgia, alla grandiosità del pianismo ottocentesco: dico più passione che nostalgia perché non c'è gioco metalinguistico, ma piuttosto la volontà e la capacità di parlare da pari a pari la lingua dei grandi. A tratti mi fa pensare a Brahms, il Brahms delle sonate più che delle opere tarde; a tratti all'ultimo Beethoven; Eric dice Liszt e ha sicuramente ragione. La scrittura pianistica non è semplice - tutt'altro. Però è asciutta, stagliata, scultorea, fatta di pochi oggetti forti che vengono sottoposti alla minima elaborazione necessaria a costruire percorsi lineari. Il meccanismo è l'iterazione, il fine è una retta (crescendo, accumulazione, rarefazione), il risultato sfiora il tematismo. Si guarda alla classicità ma si toccano gli archetipi: questa mi sembra forse la vera, profonda chiave di lettura di quest'opera, e mi spiega una certa qualità atemporale che vi colgo.

L'altro punto - fortemente collegato - che mi affascina in Caduceata Region è la sua monumentalità. Non è semplicemente una questione di durata assoluta, anche se oggi siamo meno abituati che in passato a 20 minuti di piano solo (troppi pezzi da 12 minuti in giro?). È anche l'estrema coerenza dei tre movimenti, che invita a un ascolto unitario e di conseguenza a una percezione unitaria della durata. E poi l'imponenza dei gesti; il suono larghissimo delle armonie tutte costruite, mi sembra, a partire da terze, seste e triadi consonanti, ancora oggetti del passato che appaiono in luoghi nuovi; il discorso musicale che si articola in ampie arcate, senza rotture, senza elementi anodini: l'oggetto che stiamo costruendo è grande e luminoso, rifugge il desiderio di nascondersi dietro al gioco intellettuale, le tentazioni del crepuscolarismo ma anche della ieraticità, abbraccia una retorica fatta di parole potenti e sintassi limpida. E parla a lungo, senza risparmiarsi.

Mi piace spiegare a me stesso le musiche che ascolto in termini di musiche che ho ascoltato: ma qui mi vengono in mente solo giganti lontani, certi oggetti radicali dell'Ottocento, la Wanderer, i Quadri, la Hammerklavier; o, al limite, la durezza di alcune figure, quella dell'inizio ad esempio, mi fa intravedere certe opere dell'immediato dopoguerra, il Klavierstück IX di Stockhausen su tutti, lezioni di coraggio che dovremmo ripassare. Ma in definitiva questo Caduceata Region non assomiglia a niente: e mi sembra invece un lavoro perentorio, definitivo, importante, che meriterebbe di diventare - o forse in qualche modo è già - un classico: spero che chi può fare qualcosa perché ciò succeda lo faccia…

3 commenti:

  1. Ciao. Due cose mi parlano molto. La monumentalità e il fatto che non ci si perda in dettagli, siano grandi o piccoli. C'è una cerca franchezza della parlato, e una luminosità di vedute. L'oggetto è grande e si impone. C'è una digestione del repertorio pianistico ottocentesco che apre delle porte senza rifarsi direttamente a un'opera precisa, o a un'epoca. C'è la potenza e il flusso romantico. Che forse appassiona perchè siamo abituati al secco 900 e 2000. Il brano mi è piaciuto e mi piace, proprio perchè si impone, come dici, e un pò è al di là di tutte le questioni musicali in senso stretto, semplicemente dice qualcosa in modo efficace. E la cosa mi piace. (tbc)

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  2. Mi piace la tua proposta, perché sono convintissimo che ci siano degli autori della generazione precedente alla nostra che ci parlano e ai quali siamo legati. Non sono poi molti, ma il fatto che alcuni di loro siano stati nostri insegnanti a mio avviso non ci deve spaventare. Sono ammirevoli le dimensioni e il coraggio di chi guarda (forse con occhi diversi dai nostri, direi talvolta in maniera più gratuita dei nostri) ad una cifra musicale non necessariamente attuale, ma puramente contemporanea. La digestione del repertorio mi ha sempre poco interessato, anche se è palese. In effetti il brano "si impone" come dice Eric e sebbene il "flusso romantico" sia lontano dalle mie pulsioni, vi riconosco una rara genuinità. Secondo me Aralla ha goduto nello scrivere questi pezzi e secondo me si sente. Questo è l'aspetto che più mi piace.

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  3. Andrea, grazie per questo ascolto. per ora ho sentito solo il primo ch mi si è scolpito nella testa immediatamente e per cui attendo ancora un po' prima di ascoltare gli altri. è vero, c'è un ricordo beethoveniano unito ad un profumo algoritmico che personalmente mi piace molto. da gustare con calma anche i prossimi due...

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